
«Solo la Madre può rimpiangere: essere depresso, si dice, significa vestire la figura della Madre che io immagino rimpiangermi per sempre: immagine immobile, morta, uscita dalla Nekuia; ma gli altri non sono la Madre: a loro il lutto, a me l’avvilimento».
Roland Barthes
A.D. 1134 ca.
Eloisa, ormai abbadessa del Paracleto, viene in possesso di una lunga lettera, che passerà alla storia come Historia calamitatum, scritta dall’ex amante Abelardo. Una vera e propria autobiografia, in cui il filosofo dialettico più celebre del XII secolo con grande lucidità e schiettezza raccoglie le proprie memorie una dopo l’altra, dall’infanzia trascorsa in Bretagna ai successi nelle dispute parigine con i più grandi maestri dell’epoca, da Guglielmo di Champeaux ad Anselmo di Laon. Apre la sua prima scuola già giovanissimo e uno stuolo di allievi si precipita a seguire le sue lezioni da ogni angolo della Francia. E nonostante le insidie che i nemici, sempre più numerosi, tramano contro di lui, all’età di quarant’anni Abelardo riesce a conquistare la prestigiosissima cattedra di Parigi. Ricco e famoso come non mai, con il successo cresce anche la sua vanità. Così, scrive, «proprio quando mi consideravo ormai l’unico filosofo della terra, e mi sembrava di non aver più nulla da temere, io che fino ad allora ero vissuto nella più rigorosa castità, cominciai a cedere alla sensualità».
È allora che l’occhio di Abelardo cade su Eloisa. Poco più che sedicenne, cattura l’attenzione del filosofo non soltanto per la sua bellezza, ma soprattutto per la sua cultura e quella fine intelligenza che l’avevano già resa nota in tutto il regno. Ma come conquistare un tale premio? Eloisa, immersa nella lettura, scorre con lo sguardo il freddo e razionalissimo piano ideato per sedurla. Abelardo arriva addirittura al punto di farsi ospitare a pensione nella casa di suo zio Fulberto, «molto avido di denaro e [che] per di più desiderava moltissimo che sua nipote si perfezionasse negli studi letterari». Le occasioni per gli incontri tra i due innamorati si sprecano:
Con il pretesto dello studio pensavamo solo al nostro amore e inoltre le cure scolastiche ci offrivano quella solitudine che l’amore sempre richiede. Aprivamo i libri, ma si parlava più d’amore che di filosofia: erano più i baci che le spiegazioni. Le mie mani correvano più spesso al suo senso che ai libri. […] Nel nostro ardore, passammo per tutte le fasi dell’amore: e se in amore si può inventare qualcosa di nuovo, noi lo inventammo.

Preso dalla passione, ormai Abelardo si dedica sempre meno allo studio e ai suoi allievi, e se gli capita di creare qualcosa di nuovo non si tratta di teorie filosofiche, ma di dolci canzoni d’amore. Così non trascorre molto tempo prima che l’affair tra i due sia già sulla bocca di tutti. Troppo tardi per porvi rimedio, ne viene a conoscenza anche lo zio Fulberto che separa immediatamente i due amanti, ma Eloisa nel frattempo si è accorta di essere incinta e i due sono costretti a fuggire da Parigi. Rifugiatisi in Bretagna, Eloisa darà alla luce il suo bambino, Astrolabio, che verrà adottato dalla zia paterna.
Tornato a Parigi, il filosofo accoglie la richiesta di Fulberto di sposare la sua giovane amante per rimediare al torto subito, a patto che l’unione rimanga segreta. Ma Eloisa è contraria al matrimonio riparatore: ufficializzerebbe lo scandalo e troncherebbe irrimediabilmente la carriera del suo amato. «Infine, venendo a se stessa, Eloisa metteva in evidenza […] quanto sarebbe stato più bello per lei e più onorevole per me [Abelardo] averla come amante che come moglie: così solo l’amore mi avrebbe legato a lei». Abelardo però non cede: pochi giorni dopo, all’alba, sono uniti in matrimonio alla presenza di pochi testimoni. Tuttavia Fulberto tradisce il patto e comincia a mettere in giro la notizia dell’avvenuta congiungimento. Abelardo allora scorta Eloisa nell’abbazia femminile di Argentuil e le fa preparare l’abito religioso. I parenti di lei, credendo che il filosofo abbia voluto in tal modo sbarazzarsene, «mi punirono con la già crudele e infamante delle vendette […]: mi tagliarono cioè la parte del corpo con cui avevo commesso ciò di cui essi si lamentavano». Profondamente umiliato, prende i voti ed entra in monastero, persuadendo Eloisa a fare lo stesso. Da questo momento in poi, mentre Abelardo, continuamente perseguitato dai molti nemici, vede le sue disgrazie accrescersi, un abisso di silenzio separerà i due amanti più del nuovo stato a cui hanno deciso di votarsi.

Quando Eloisa legge l’Historia Calamitatum, sono passati ormai quasi quindici anni dai piaceri parigini, ma nulla ha potuto scalfire l’amore per quell’uomo cui ha sacrificato la sua intera vita: «Tu sai bene che ho accettato di sacrificare la mia giovinezza nell’austerità della vita monastica non per vocazione ma solo per ubbidire a un tuo preciso ordine». Così addolorata dall’apprendere dalle tragiche condizioni in cui versa, rompe il mutismo con una lettera che è una perla rara della letteratura universale. I sentimenti di Eloisa erompono sulla carta come un fiume in piena. Gli rimprovera la distanza e la solitudine in cui l’ha confinata, dolore acuito dalla consapevolezza di avere dato tutto per lui: «e anche se il nome di sposa può parere più santo e decoroso, per me fu sempre più dolce quello di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto perché quanto più umiliavo davanti a te, tanto più credevo di piacerti e ricercare minor danno alla tua gloria». Quello di Eloisa è un amore verticale e assolutista, quasi idolatra per una creatura che è elevata al di sopra di tutte le altre e che nel suo cuore adombra Dio stesso: «Sta’ pur sicuro che da Dio non mi aspetto alcuna ricompensa, perché so che per amore di lui finora non ho fatto assolutamente nulla». Eppure non esita a insinuare il sospetto che le sue intenzioni siano sempre state altre, che pur nella sua grandezza Abelardo abbia peccato di un amore imperfetto, più basso e inadeguato al suo e non ha timore di rinfacciarglielo: «I sensi e non l’affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d’affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni». Eloisa come tutti gli amanti è una mendicante: brama di udire da parte sua anche una sola parola. Lo supplica ripetutamente di non abbandonarla, di non farle mancare la sua presenza.
La risposta di Abelardo ai suoi occhi è perciò deludente. Il vecchio filosofo, ormai quasi sessantenne, provato da una serie infinita di disgrazie, si è redento e legge ogni cosa alla luce della provvidenza divina. Guarda a Eloisa con un affetto quasi paterno, e si preoccupa per la sua fede. Le chiede insistentemente di pregare per lui, elogiando il ruolo delle donne nella storia della salvezza. Tra le righe, si intravede il suo pentimento per la condizione in cui l’ha trascinata. Chiude alludendo alla prossimità della sua morte e chiede di poter essere sepolto al Paracleto, vicino alla sua cara figlia. E così avverrà nel 1142. Eloisa gli sopravviverà ancora ventidue anni. Morirà nel 1164 alla stessa età di Abelardo, si dice, e verrà sepolta nella cripta al suo fianco dove rimarranno insieme per più tre secoli prima che i resti vengano traslati in altri luoghi. Dal 1817, riposano al cimitero di Père-Lachaise.