La lezione di Roberto Longhi nell’opera di Pier Paolo Pasolini

A cent’anni dalla nascita una mostra evocativa ed emozionante su Pier Paolo Pasolini e sul suo importante incontro con le lezioni di storia dell’arte del critico Roberto Longhi.

Scendendo per le scale del sottopasso di Piazza Re Enzo a Bologna – nei pressi di Piazza Maggiore – e lasciandosi alle spalle il rumore di Via Rizzoli, si viene trasportati all’interno di una dimensione onirica dove, lentamente, prende vita, attraverso proiezioni di immagini e suoni, il mondo di un grande intellettuale e regista bolognese.
Da questa catàbasi rivelatrice, ha inizio il viaggio che la Cineteca di Bologna ha voluto dedicare al centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini.
La mostra, visitabile fino al 16 ottobre 2022, dal titolo Pier Paolo Pasolini: Folgorazioni Figurative – curata da Marco Antonio Bazzocchi, Roberto Chiesi e Gian Luca Farinelli -, permette al visitatore di conoscere il percorso formativo dell’artista suddividendolo in dieci sezioni o, meglio, in dieci “folgorazioni”. 

La principale “folgorazione”, cui si accenna nel titolo dell’esposizione, nasce tra i banchi di una piccola aula dell’Università di Bologna, al numero 33 di Via Zamboni. Qui, nell’inverno del 1941, ebbero luogo le lezioni di Storia dell’arte medievale e moderna tenute dal professor Roberto Longhi. Seduto a un banco di quell’aula Pasolini seguì con passione questo corso incentrato sulla pittura di Masolino e di Masaccio. In particolare, ad attrarlo fu il metodo innovativo di cui, in piena epoca fascista, il professor Longhi si avvalse per le sue analisi: le opere d’arte non venivano, infatti, spiegate con auliche e formali letture, ma attraverso la proiezione dei particolari dei dipinti, poi commentati in tutti i loro minuziosi dettagli. Fu proprio da quelle immagini proiettate dalla luce sulla parete e «cariche di bellezza che esprimono il “sacro” della realtà», che nacque la vocazione per il cinema in Pasolini. 

Negli anni seguenti, durante la Seconda Guerra Mondiale, Pasolini, facendo tesoro dei suoi studi bolognesi, si reca frequentemente a Casarsa, in Friuli, dove, oltre a scrivere la sua prima raccolta Poesie a Casarsa, ha anche modo di conoscere la pittura locale e di scoprirne i «risultati più brillanti». La luce, infatti, imprimerà sulle future pellicole del Pasolini regista una presenza costante e vitale, poiché elemento attivo, dinamico che risalta l’oggetto su cui ricade a volte mostrandolo per com’è davvero, altre volte deformandolo. 

Dopo l’importante parentesi friulana e con la fine del conflitto mondiale, Pasolini, nel gennaio del 1950, si trasferisce a Roma. Sarà qui che si aprirà un nuovo e fondamentale capitolo della sua consapevolezza artistica. A Roma egli farà luce sul lato più nascosto della città, che lui definirà essere «stupenda metropoli plebea». Sarà, infatti, folgorato dalle realtà umili e reiette che la popolano ed imparerà a conoscerle mescolandosi ad esse e divenendo testimone di quell’umanità dimenticata che costituirà l’ennesima fonte di ispirazione per il poeta, tramite cui darà vita alle prime opere come regista: Accattone (1960), Mamma Roma (1962) e La ricotta (1963). In questi film, per la prima volta, per la tecnica registica e per le scenografie Pasolini si avvarrà delle sue conoscenze di storia dell’arte apprese a lezione da Roberto Longhi. In essi, infatti, a prevalere visivamente sono la fisicità e l’energia corporea dei personaggi, come nei dipinti del Masaccio, ripresi nei loro dettagli da Pasolini per narrare e rappresentare quel mondo lontano della periferia romana. Allo stesso tempo si viene a creare una stretta connessione con il mondo caravaggesco.

Dalla mostra Folgorazioni Figurative, fotogramma da Accattone (1961) e dettaglio da Cacciata dei progenitori dall’Eden, Masaccio, 1424.

Pasolini, come Caravaggio sceglie i suoi attori dal popolo – come il giovane cameriere romano Ettore Garofalo protagonista nel film Mamma Roma. Nei suoi film, Pasolini usa ossessivamente la luce, come Caravaggio usa il diaframma luminoso per i suoi quadri «che fa delle sue figure delle figure separate, artificiali, come riflesse in uno specchio cosmico (…) e così la luce, pur restando così grondante dell’attimo del giorno in cui è colta, si fissa in una grandiosa macchina cristallizzata».

Dopo aver fatto riferimento all’arte trecentesca (l’utilizzo della luce contrastante di Masaccio) e alla poetica di Caravaggio, nel suo terzo film, La ricotta (1963), Pasolini inserirà il colore. Questa svolta nasce dopo che, nel 1961, egli era approdato alla lettura del testo di storia dell’arte di Giuliano Briganti La maniera italiana. Il film in questione è, infatti, intriso di “manierismo” (che Longhi, nel 1953 definirà essere un momento artistico in cui prevalgono «umori balzani, lunatici, spesso introversi») a partire dalle due sequenze in cui Pasolini mette in scena i due quadri della Deposizione di Cristo rispettivamente del Pontormo e di Rosso Fiorentino, pionieri di tale corrente artistica. Vere e proprie citazioni, dunque, che si inseriscono e colorano vividamente, con le tinte brillanti tipiche dei manieristi, parte della pellicola che per il resto del film è girata in bianco e nero.

A confronto la Deposizione di Volterra, Rosso Fiorentino (1521) e il tableau vivant della Deposizione ne La ricotta (1963)

Sul finire degli anni Sessanta, nel pieno clima delle contestazioni giovanili, il lavoro artistico di Pasolini prende una piega del tutto inaspettata. L’arte primitiva e classica utilizzata come tramite per la lettura della realtà dei suoi primi film viene di colpo abbandonata, per far sì che all’interno della sua opera si insinui un protagonista nuovo, fino ad allora taciuto: la borghesia. Nei confronti di questo ceto sociale, la sua vis polemica è tanto più forte in quanto egli stesso ne fa parte. Pasolini è, infatti, come scrive il professor Marco Antonio Bazzocchi – tra i curatori della mostra bolognese – un «borghese eretico che non sa sorridere e che tende a drammatizzare tutto (…) autoesiliato dalla propria classe di appartenenza» ma senza dimenticarne le origini. 

Sono proprio gli odiati borghesi, contro cui Pasolini urla il suo disprezzo, che, ora, popolano le sue opere, poiché la borghesia è la classe vincente e il suo trionfo contamina la realtà e massifica lo sguardo. Il primo film che affronta queste tematiche è Teorema (1968), in cui viene infatti descritta la storia di una famiglia borghese. Questa volta, a dare ispirazione al pathos espressivo dei protagonisti del film sono le opere di Francis Bacon, in cui compaiono figure deformate e strazianti che assumono forme mostruose e animalesche.

Dalla mostra Folgorazioni Figurative, Terence Stamp e Andrès José Cruz Soublette mentre consultano il catalogo della mostra dedicata a Francis Bacon, dal film Teorema (1968)

Ha qui inizio «l’orribile presente borghese e capitalistico» che Pasolini condanna e che trova la sua prima rappresentazione nei volti fissi e inespressivi della famiglia di Teorema e il suo culmine negli ambienti chiusi e freddi di Salò (1975) – ultimo film prima dell’assassinio del regista. In esso i protagonisti, i quattro Signori e le Narratrici, danno vita alle loro perversioni, in un gioco registico fatto di inquadrature simmetriche e di specchi che riflettono ampi spazi déco in cui spiccano oggetti e rimandi all’arte d’avanguardia dei futuristi, di Léger e di Mackintosh. Viene costruito un mondo surreale e feroce come la classe che lo popola.

A chiudere il cerchio del percorso artistico di Pasolini e della mostra è un servizio fotografico realizzato nell’ottobre del 1975, pochi giorni prima che il regista fosse assassinato, nel quale Pasolini viene immortalato dal fotografo e amico Dino Pedriali. Tra gli scatti spicca quello in cui Pasolini, inginocchiato per terra, ritrae su un foglio da disegno il profilo di Roberto Longhi – ripreso dal volume del 1973 con i saggi più famosi dello storico dell’arte curati da Gianfranco Contini –, l’ultimo omaggio al maestro della sua prima e illuminante “folgorazione figurativa”: un’immagine che ci accompagna nella risalita verso la superficie e nella realtà affollata del centro di Bologna.

Dalla mostra Folgorazioni Figurative, uno degli scatti del servizio fotografico del fotografo Dino Pedriali a Pier Paolo Pasolini, 1975, dall’Archivio Dino Pedriali/ Cineteca di Bologna.

Immagine di copertina: Pasolini regista che ritrae il profilo di Roberto Longhi, © Andrea Pizzo.

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