Ma quanto ne sappiamo (davvero)?

Parliamo di paradossi della conoscenza in compagnia di Weber, Escher e una simpatica coppia di terrapiattisti.

Pianeta Terra, anno 2020. Il progresso tecnologico-scientifico sembra inarrestabile e il patrimonio di conoscenze dell’umanità si è esteso fino a toccare i confini dell’universo. La Biblioteca di Alessandria d’Egitto, la più grande e ricca del mondo antico, impallidirebbe se paragonata alle risorse che Internet ci mette a disposizione, letteralmente a portata di mano. E viviamo in un contesto politico, economico e sociale talmente complesso e in così rapida evoluzione, da rendervi l’adattamento richiesto – in termini di conoscenze e competenze – costante e impegnativo. Dalla seconda guerra mondiale in poi, hanno visto la luce le prime generazioni che potrebbero morire in un mondo radicalmente diverso da quello in cui sono nate.

Eppure anche un’epoca come la nostra, che fa dell’intellettualismo il suo pane quotidiano, è costretta a prendere atto dell’esistenza di un tanto disarmante quanto inevitabile cortocircuito quando si affronta il problema della conoscenza. Ce lo presenta Max Weber, uno dei padri fondatori della sociologia ne La scienza come professione: 

Chiunque di noi viaggi in tram non ha la minima idea – a meno che non sia un fisico di professione – di come esso fa a mettersi in movimento; e neppure ha bisogno di saperlo. Gli basta di poter “far assegnamento” sul modo di comportarsi della vettura tranviaria, ed egli orienta il suo comportamento in base ad esso; ma non sa nulla di come si faccia per costruire un tram capace di mettersi in movimento. Il selvaggio ha una conoscenza incomparabilmente migliore dei propri utensili […]. La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione […] significa: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe venirne a conoscenza. 

Weber, con il suo esempio, ci sta suggerendo che la conoscenza, per i contemporanei, abbia in qualche modo a che fare con la fede, un concetto intuitivamente opposto. Sapere qualcosa è molto più che crederlo e basta. Quindi, quello che Weber ci sta implicitamente dicendo, è che – in senso lato – più se ne sa, più se ne sa meno. Come è possibile? Scopriamolo insieme tirando fuori da sotto il tappeto due insidiosi paradossi della conoscenza. 

Paradosso 1

Partiamo dal presupposto che la conoscenza si può espandere in due differenti direzioni: in verticale (intensità) o in orizzontale (estensione). Nel primo caso, abbiamo a che fare con la qualità di ciò che si conosce, il nostro grado di specializzazione rispetto a una certa materia. Nel secondo, invece, è una questione di quantità: quante cose si sanno, in quanti ambiti differenti, quanto è completo il nostro quadro generale. Inutile a dirsi, entrambe le due dimensioni sono fondamentali, eppure è facile constatare come, nella storia dell’umanità, all’aumentare dei progressi conoscitivi si siano rivelate sempre più inversamente proporzionali l’una all’altra.

M. C. Escher, Relatività, 1953

Sembrerebbe di stare dentro a Relatività, una delle più celebri litografie di M. C. Escher, in cui vediamo più piani del reale intersecarsi tra loro, senza che gli uomini che vi camminano al di sopra abbiano mai l’effettiva possibilità di incontrarsi gli uni con gli altri. Questo perché ciascuno di essi possiede un concetto diverso di ciò che è orizzontale o verticale, senza che ciò, peraltro, impedisca loro di usare le stesse scale e compiere, quindi, lo stesso percorso: è tutta una questione di prospettiva.

Eppure la soluzione sta proprio nel far comunicare quelle figure solitarie tra di loro. Se infatti è pur vero che nessun uomo o donna può avere le capacità di farsi carico dell’impresa conoscitiva considerata nella duplicità delle sue dimensioni, ciò non vale per la comunità scientifica globalmente intesa. In fondo non siamo che «nani sulle spalle di giganti», come amava dire Bernardo di Chartres, un filosofo del XII secolo. Cosa significa? Che Einstein, tanto per citarne uno, non avrebbe formulato nessuna teoria della relatività se non fosse stato prima preceduto da Newton, Copernico e tutta la meccanica classica. E, ancor prima, dalle teorie astronomiche di Tolomeo, la scoperta della geometria piana, il concetto di numero. Ad oggi, la globalizzazione ci mostra come la possibilità di una comunicazione trasversale della conoscenza da un capo all’altro del pianeta sia fondamentale per il progredire della ricerca in tutti i campi. 

Paradosso 2

A questo punto facciamo un passo indietro e torniamo all’ignaro viaggiatore sul tram di Weber, perché c’è un altro paradosso con cui conviviamo tutti i giorni da mettere in luce. 

Quand’è che possiamo dire di conoscere veramente qualche cosa? Quando crediamo un qualche cosa, quel qualche cosa è vero e ho delle buone ragioni per crederlo. Facciamo un esempio. Prendiamo la seguente proposizione e supponiamo che quanto da essa descritto sia vero: “Il melo del mio giardino è fiorito”. Qual è il discrimine per poter dire di sapere o semplicemente credere il contenuto di questa frase? Aggiungiamo qualche dettaglio e sarà tutto più chiaro.

  1. “Il melo del mio giardino è fiorito, me l’ha detto la mamma al telefono”.
  2.  “Il melo del mio giardino è fiorito, l’ho visto nell’uscire di casa stamattina”.

Nel primo caso, io posso soltanto dire di credere che il melo sia fiorito, perché do ascolto a una fonte terza. Nel secondo, invece, lo so con certezza, perché ho avuto modo di verificarlo empiricamente. Insomma: tutto sta nella capacità di rendere ragione delle proprie credenze. Se lo si fa, ecco che la credenza è conoscenza a tutti gli effetti. Va da sé, però, che non tutte le ragioni sono abbastanza forti per essere ritenute valide, è questo il caso di informazioni comunicateci da altri che non siano state verificate o che, addirittura, non siano verificabili in alcun modo. Questo cosa comporta? Che non basta leggere libri, manuali e giornali per poter dire di sapere veramente qualche cosa, per quanto resti un punto di partenza indispensabile. Non basterebbe una vita intera per rimettere in discussione tutto il contenuto della conoscenza che ci è stato trasmesso – lo stesso che ci ha permesso di volare e atterrare sulla Luna – né avrebbe senso. 

Resta il fatto che, per quanto a partire dalla Rivoluzione scientifica in poi si sia fortemente respinto il principio di autorità nel campo del sapere, ci ritroviamo ad assecondarlo necessariamente nella vita di tutti i giorni. Si pensi solo a come si fa a discriminare una notizia vera da una falsa: ci possiamo impegnare a vagliare le fonti finché vogliamo, ma si tratta pur sempre di fonti secondarie, in poche parole: autorità. Nonostante tutto, un’improbabile coppia di terrapiattisti ci insegna a non perdere la speranza di potersi avventurare nel mondo della conoscenza in primissima persona.  È giusto di un mese fa la notizia di un uomo e una donna di mezza età che, in pieno lockdown, hanno venduto la loro macchina per comprarsi una barca e veleggiare coraggiosamente fino ai confini del mondo – Lampedusa, per la cronaca. Non hanno trovato conferma delle proprie teorie, ma la guardia costiera pronta a trarli in salvo al largo delle coste di Ustica. A cosa serve questa storia? Certamente non a dirci che la terra è piatta, o a indurci a credere nell’esistenza dei rettiliani, ma senz’altro a riscoprire la meraviglia di poter bucare la bolla ogni tanto e andare oltre le colonne d’Ercole di una cultura fatta solo di libri.

Immagine di copertina: M. C. Escher, Studio per Stelle, 1948

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