Tweet contro l’idea della riduzione del lavoro sovrapposta a immagine storica dell’ufficio Magnum Photo. New York, 1963

Ripensare il lavoro: di come il tempo è spazio di potere, e di come farlo nostro

Siamo frustrati per la mancanza di lavoro o esausti per il sovraccarico. Mobilitarsi per una riduzione delle ore lavorative è un esercizio di potere collettivo che permette di pensare a un nuovo modello di esistenza comune.

Gli italiani lavorano in media 36 ore a settimana, il che corrisponde a circa 7 ore al giorno, per cinque giorni. Le medie matematiche, specialmente se riportate in modo assoluto, senza riferimento al campione analizzato o al margine di errore, spesso non sono immagine affidabile dei fenomeni sociali che si propongono di ritrarre. Nel 2021, Il Sole 24 Ore ha condotto un’indagine su un campione di 960 giovani di età compresa tra i 18 e 35 anni. Il 63% degli intervistati ha definito la propria situazione lavorativa come instabile. L’Istat ha dichiarato che più della metà dei dipendenti a tempo determinato assunti nel 2022 ha contratti trimestrali, mensili o anche giornalieri e guadagna un salario annuale inferiore ai 10 mila euro. È chiaro allora che quelle 36 ore a settimana siano un’approssimazione tra chi ne fa molte di più e chi molte meno. Il valore medio, quindi, non rappresenta nessuna persona in particolare, ma solo un agglomerato di esperienze individuali, fortemente polarizzate.

La polarizzazione delle esperienze lavorative è una delle ragioni per cui, prima alcune aziende e poi alcuni governi (Scozia e Belgio, per esempio), hanno deciso di sperimentare una riduzione delle ore lavorative, mantenendo lo stipendio dei dipendenti costante.

Lavorare meno è utile

Come evidenziano Kyle Lewis and Will Stronge nel manifesto Overtime: Why We Need A Shorter Working Week, ridurre il totale delle ore lavorative settimanali per dipendente ha conseguenze a livello ambientale, sanitario, produttivo e sociale. Da una parte, accorciare la settimana lavorativa riduce gli spostamenti e l’utilizzo di energia e – supportando un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata – ha un impatto meno invasivo sulla salute mentale dei lavoratori e ne aumenta la produttività. Dall’altra, ridurre le ore di lavoro per chi ne è sovraccaricato aumenta le offerte di lavoro per chi ne cerca e aiuta la redistribuzione delle risorse lavorative.

Lavorare meno è una questione politica

La riduzione delle ore di lavoro è una richiesta intrinsecamente politica in quanto esercizio di sbilanciamento (o ri-bilanciamento) di dinamiche di potere, che si propone – in senso concreto – di fare dell’utopico (lavorare meno, o non lavorare affatto), il reale.
La richiesta e l’ottenimento di migliori condizioni lavorative è un’azione concreta e un prodotto tangibile di lotte sindacali, e, in quanto tale, ha una storia. Si farebbe un errore, infatti, se si pensasse che ciò che oggi sembra naturale, ovvero avere i weekend liberi, sia frutto del mercato libero o di dirigenti illuminati. La settimana lavorativa di 5 giorni, infatti, è prodotto diretto dell’organizzazione e di una pressione sociale imposta dai lavoratori su dirigenti e governi. La mobilitazione dal basso ha dimostrato di funzionare e ha reso la vita di tuttə più facile che in passato, e può e deve continuare a farlo.

Fotografia in bianco e nero di manifestazione con cartelloni che reclamano le 8 ore lavorative
Campagna per le 8 ore lavorative in Danimarca, 1912. Autore sconosciuto.

Lavorare meno è una questione teorica

Un’ulteriore richiesta di riduzione delle ore di lavoro (da 5 a 4 giorni di lavoro) è segno di un germoglio di pensiero, già vivo in alcuni strati demografici. Se i Millenials sono cresciuti con lo spettro del precariato, soffrendo della scissione tra quello che si vorrebbe fare (ed essere) e quello che di fatto si può fare (ed essere), la Gen Z – per la quale quello spettro si fa realtà innegabile – sta imparando a scindere la propria identità dalla propria professione. La frase «I don’t dream of labour», nel 2021, è diventata virale su Tiktok e YouTube e il subreddit r/antiwork ha raggiunto i 1.9 milioni di utenti. La Gen Z sta di fatto riuscendo ad evitare quel ricatto emotivo (di cui parla Irene Doda qui) per cui si deve amare il proprio lavoro, e per cui si finisce ad ignorare la violazione dei propri diritti e a svuotare di significato il tempo dedicato ad altro.

Lavorare meno è uno sforzo collettivo

Riappropriarsi del tempo che il lavoro ci nega (non solo attraverso le effettive ore lavorative, ma anche quelle impiegate nella costruzione del CV, nella formazione personale pensata all’impiego, nell’andare al lavoro, nel rispondere a mail, chiamate o messaggi fuori orario), è possibile solo se inteso come un’impresa collettiva, uno sforzo comune.

In primo luogo perché, nonostante si pensi responsabilità individuale, il benessere deve essere inteso come faccenda comune. Dario Gentili, in The age of precarity, endless crisis as an art of government, mette in luce come nel sistema neoliberale, la felicità sia responsabilità dell’individuo. Si pensi ai workshop sul benessere aziendale che – imponendo di stirarsi i muscoli dopo qualche ora alla scrivania, di fare una passeggiata, di andare in palestra, di non guardare le mail fuori dall’orario di lavoro – fanno dell’insoddisfazione una colpa dell’individuo, in quanto non in grado di gestirsi o di ottimizzare il tempo che non si dedica al lavoro. Citando (ancora) Mark Fisher «Free time becomes convalescence». Quando l’individuo si vede come unico colpevole della propria infelicità si sente annichilito e frustrato e non sa chiedere di meglio.

In secondo luogo perché avere diretto controllo sul proprio tempo è anche questione di potere. Il datore di lavoro che controlla le durate delle pause pranzo e che messaggia ossessivamente il dipendente su Teams esercita un potere che il dipendente tenta di bilanciare prendendosi un caffè in più, fumando una sigaretta, allungando la pausa pranzo. La riappropriazione individuale, quando passa per il micro-sabotaggio (ad esempio tramite le pratiche appena citate), mette il dipendente in posizione precaria mentre quando avviene tramite le soluzioni di benessere aziendale non può fare molto di più che aumentare la produttività.

La riappropriazione collettiva, che invece passa attraverso scioperi, manifestazioni, discussioni aperte, sindacati e mobilitazione, non è solo più efficace (come si è visto in passato) ma è anche un possibile terreno di confronto e di propensione verso un’identità scissa dal lavoro, che inquadra il lavoro come mezzo e non fine ultimo della realizzazione personale e di una felicità non intrinseca al lavoro, non a prescindere da esso, ma essenzialmente altro.

Immagine di copertina: Illustrazione dell’autrice su immagine di Werner Bischof: Magnum Photos office, 64th Street. New York. USA. 1953.

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