Sii sovversivo!

Cinque cattivi propositi per l’anno che verrà.

Diciamocelo francamente: questa notte, allo scoccare della mezza, nessuno verserà una lacrima per il 2020. E l’entusiasmo per il 2021 sarà moderato, perché – lo sappiamo bene – non c’è limite al peggio. 

Anno bisesto, anno funesto, ma chi se l’aspettava un’epidemia globale come quella da Covid-19? Abbiamo dovuto rinunciare alla nostra libertà di movimento, ripensare la socialità, e in molti si sono ritrovati senza un lavoro. Ed è niente in confronto a tutte quelle persone che non ce l’hanno fatta. 

Per questo di fronte all’ennesimo slogan sul pensare positivo, i ripetuti “Ce la faremo!” a tinte arcobaleno; dopo mesi di catartici flashmob sui balconi, la caccia agli untori e il voyeurismo da dietro lo spioncino della porta, possiamo dirlo che ci siamo stufati? Che stipati nei nostri alveari cittadini, assediati dallo smart working, ossessionati dal lievito madre e dalle diete, abbiamo il diritto di farci un po’ schifo senza sentirci troppo in colpa?

Sicuramente avremmo la benedizione di Marian Donner, giornalista e scrittrice olandese, autrice di un bellissimo Manuale di autodistruzione (Saggiatore), pamphlet irriverente che incoraggia a “puzzare, bere, sanguinare, bruciare e ballare di più”. Una notevole fonte d’ispirazione, che mi ha spinto a buttare giù una lista di cinque (cattivi) propositi per il 2021.

Marian Donner, Manuale di autodistruzione (Saggiatore)

Sbattitene!


Ovvero, fai dell’
Hakuna Matata di disneyana memoria il sacrosanto mantra dell’anarchia. Certo, il rifiuto sfacciato della società non potrà durare per sempre: arriverà il momento in cui le responsabilità verranno a reclamare il nostro intervento per riconquistare la Rupe dei Re e abbattere il regime di Scar, ma non è questo il giorno. 

«Non è segno di salute mentale essere ben adattati ad una società profondamente malata», scriveva il filosofo indiano Krishnamurti, e non è sicuramente sana una società in cui la depressione, secondo l’OMS, è la prima malattia del mondo. La pandemia ha contribuito a esacerbare un contesto già seriamente compromesso, in cui il sogno neoliberale ci ha convinto che è soltanto da noi che dipende il nostro successo – e, rovescio della medaglia, ogni più piccolo fallimento. Per funzionare bene, dobbiamo massimizzare la nostra efficienza e produttività. Obiettivo? Spendere più di quanto guadagniamo nel poco tempo che ci rimane per farlo.   

«In un mondo del genere non bisogna chiedersi come possiamo ancora migliorare noi stessi. In un mondo simile bisogna chiedersi come fare a essere il più sovversivi possibile nei confronti di un sistema che ci mortifica tutti» 

(Marian Donner)

Abbatti gli idoli 


Ma torniamo a Mufasa, monarca assoluto della Savana. Il suo potere è istituito dal Cerchio della Vita, e viene trasmesso per diritto di sangue al figlio primogenito, Simba. Tutto ciò è molto distante dal nostro modo di concepire la divisione dei poteri e la partecipazione democratica, tuttavia non ci va proprio di immaginare la testa di Mufasa che rotola sotto la ghigliottina. Con il
sistema capitalistico funziona pressappoco nello stesso modo.

Il politologo Fukuyama parla, in questo senso, di fine della storia: il processo di evoluzione dell’umanità avrebbe raggiunto il suo culmine alla fine del XX secolo. Ciò che segue non sarebbe altro che una fase finale di conclusione della storia tout court. Mentre il filosofo Žižek afferma: «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».

È per questo che il teorico della cultura inglese Mark Fisher parla di realismo capitalista: non si tratta di propaganda, o di imposizioni ideologiche, ma di una narrazione consistente nell’occultare il fatto che «le operazioni del capitale non dipendono da nessun tipo di credenza accettata soggettivamente». Per pensare a un’alternativa, bisogna prima credere che sia possibile farlo.

Costruisci incertezze


Una delle più grandi fregature del XXI secolo è credere che l’incertezza sia un problema (nostro). Benché infatti strutturalmente insita al sistema – precari, su le mani! – è poco tollerata. Le
aspettative che la narrazione sociale confeziona ogni giorno per noi prevederebbero un razionale percorso formativo-lavorativo step by step, che ci dovrebbe consentire di approdare a una way of life degna di nota con la stessa leggerezza con cui si impasta la farina del Mulino Bianco. 

Così quando gli anni passano e l’upgrade è da uno stage non pagato a uno sottopagato con il miraggio di un contratto a tempo determinato, il sospetto è che la colpa sia tua. Che tu abbia scelto una facoltà sbagliata, non abbia investito a sufficienza nella creazione di un personal branding efficace o, peggio, abbia trascurato una sana attività di networking, il risultato è sempre lo stesso: sei un fallito.

L’incertezza è una condizione esistenziale: siamo fallibili, siamo precari, siamo mortali. Siamo nomadi che si aggregano a una carovana, e attraversano il deserto sognando oasi. Ma se non decostruiamo la società della performance, prima ci ammazziamo tra di noi, e i pochi rimasti saranno vittime della sete, degli animali velenosi e dei predoni. Diciamo no agli Hunger Games, grazie.

L’uomo bicentenario (1999)

Umano, non androide 


L’essere umano è tremendamente
fragile: carne e ossa che si ammaccano, si spezzano, e col tempo si degradano. Abbiamo personalità, siamo ricchi di difetti e intemperanze. Eppure viviamo circondati da modelli che ci suggeriscono di aspirare alla “migliore” versione di noi stessi: quella androide. In perfetta forma fisica, con la pelle liscia e stirata a diciassette come a sessant’anni, pieni di energia e di voglia di fare, curiosi di imparare cose nuove e di lavorare, lavorare, lavorare senza sosta, ad alti livelli di efficienza.

L’ansia di competere con questa versione idealizzata di noi stessi alla lunga ci distrugge. Nel fallimentare tentativo di omologarci a un paradigma antropologico del tutto artificiale, rinunciamo a quell’imprescindibile unicità del sé, la cui preziosità risiede nel non essere replicabile e in ultima istanza nella mortalità.

Ne L’uomo bicentenario, Asimov racconta la storia dell’androide Andrew Martin, che trascorre tutta la sua esistenza alla disperata ricerca di una identità umana. I suoi amici non riescono a capire: come può una macchina perfetta come lui, massimamente intelligente, efficiente e performante sotto ogni punto di vista, desiderare di non essere altro che un miserabile essere umano? Ma Andrew ha capito perfettamente che se le macchine vengono costruite per uno scopo, l’essere umano è guidato dal solo fine di vivere e realizzare sé stesso. Così, “nato” come androide, sceglierà di morire da uomo libero.

Meno social, più sociale


Non è una novità:
il mondo ha bisogno di noi, di tutti noi. Non siamo supereroi, è un dato di fatto, ma possiamo essere figli, amici, fidanzati, lavoratori, financo abitanti del pianeta migliori. Ciascuno a suo modo, e non per venderci meglio sui social o dare una ripulita alla nostra immagine: ma perché, ogni anno che passa, ci ritroviamo a fare i conti con ciò che conta davvero e l’epidemia ce lo ha ricordato a sufficienza. Che crediate nella reincarnazione o meno, abbiamo questa vita da vivere e non vale la pena di avere rimorsi.

Lo so, è un proposito un po’ petaloso, ma dopo tanta pedanteria filosofica un po’ di saggezza spicciola, di quella che potrebbero rifilarci i nostri nonni, era necessaria. Ringraziate che vi siete almeno risparmiati Paolo Fox.

Arrivederci al 2021, con l’augurio del sommo poeta statunitense T. S. Eliot:

“Perché le parole dello scorso anno appartengono al linguaggio dell’anno scorso e le parole del prossimo anno aspettano una nuova voce”.

Immagine di copertina: Illustrazione di Marco Sabbatani

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