illustrazione in bianco e nero di persone in attesa.

TikTok, percezione di sé e abbandono del corpo

TikTok ci può dire qualcosa su come pensiamo il nostro corpo e su come esso si rapporta all’altro e al mondo.

TikTok è uno dei tanti fenomeni da quarantena che fatichiamo a scrollarci di dosso. In UK, per esempio, solo nella settimana del 23 Marzo 2020, cioè quando Boris Johnson ha annunciato la prima serie di restrizioni, gli utenti di TikTok sono aumentati del 34%. A livello globale, il social continua a crescere. Al 21 settembre di quest’anno, 1 persona su 10 al mondo, cioè 732 milioni di persone, usa l’app.

Per quanto sia facile trovare statistiche che descrivano quanto TikTok attecchisca e quanto il suo algoritmo sia raffinato, è più complicato raccogliere dati – qualitativi e quantitativi – che rendano un’idea dell’uso che dell’app si fa. Sappiamo, per esempio, che circa il 50% degli utenti ha caricato almeno un video sulla piattaforma, e possiamo solo inferire che il restante 50% (circa) ne faccia un uso passivo, ovvero che usi l’applicazione per fruire del contenuto d’altri

Resta una questione aperta quanto questo pubblico di fatto interagisca con chi i contenuti li fa (i creators).  Il che stride con il fatto che l’algoritmo di TikTok si ciba di dati provenienti dalla costante e attenta registrazione di ogni comportamento con cui l’utente si approccia a ciascun video: se fa swipe-up o swipe-away, se mette il video in pausa, se lo guarda per intero in loop, se lo condivide, se controlla la pagina del creator, se guarda anche i suoi altri video, ma anche quando, da dove e da che dispositivo usa l’app.

Per capire un po’ meglio il fenomeno, non ci resta che fermarci al dato esperienziale, che si può riassumere in ore a scrollare, infinite combinazioni di ripetizione pedissequa e variazione creativa, una sensazione di annichilimento, un rilassante staccare il cervello, un abbandono del corpo.  

Alcuni ricercatori, passando in rassegna gli studi di psicologia, ad oggi pubblicati, con TikTok come oggetto, hanno evidenziato una mancanza di una distinzione tra comportamenti attivi e passivi. L’utente attivo è spinto dalla volontà di creare, di trovare un gruppo di persone simili a sé (il micro-targeting di TikTok è altamente raffinato, provate ad aprire l’app dal telefono di un amico e avrete una prova che – almeno in questo contesto – ogni uomo è un’isola), e dal costruirsi una identità (particolarmente rilevante per i preadolescenti). Ciò che muove l’utente passivo rimane invece inesplorato, il che è strano se si pensa a come l’app viva della passività, e, in qualche modo, la imponga. Dove, infatti, altri sistemi raccolgono esclusivamente informazioni provenienti dalla ricerca attiva, TikTok accumula dati chiedendo molto meno lavoro all’utente: non serve infatti che si cerchino o seguano persone, basta passarci del tempo. 

Ma può questa passività digitale avere conseguenze sulla controparte reale dell’utente? Altre ricerche (ancora in pre-print) sul recente sovra-utilizzo degli spazi digitali hanno rilevato come l’aumento delle ore passate a compiere attività virtuali – guardare una serie tv, giocare a un videogioco, seguire una lezione su Zoom – sia correlato ad un fenomeno dissociativo: la depersonalizzazione, ovvero una distorsione del senso del sé. Ci si sente separati dal proprio corpo e da ciò che ci circonda, come se si agisse seguendo un autopilota e si percepiscono le proprie azioni come meno reali. Per fenomenologi e scienziati cognitivi, il senso del sé trova il suo equilibrio nel momento in cui esso viene a contatto e si confronta con l’altro e con il mondo. Dal momento che le realtà virtuali sono spazi bidimensionali in cui l’esperienza dell’altro e del mondo è appiattita, ridotta delle sue idiosincrasie e puramente audiovisiva, ha senso pensare che il senso del sé si alteri e si allontani da tutto ciò che riguarda la nostra fisicità.

stampa di uomo che mostra lo schermo di un computer in cui è riflessa la sua immagine.
Grumpy Hansel, autore sconosciuto, Art collection: Edinburgh College of Art.

Quando usiamo TikTok in modo passivo è come se sposassimo quella estraniazione, quella distanza dal corpo. Guardiamo il corpo dell’altro, nelle sua mille variazioni (persone che ballano, che fanno lip sync, che cucinano, che provano vestiti, che fanno DIY), e allo stesso tempo ci prendiamo una pausa dal nostro. La ripetizione diventa confortante e il tempo si restringe, non abbiamo cognizione della nostra postura finché qualche muscolo non inizia ad indolenzirsi. Non ci è chiesto di fare nulla, e nulla facciamo. Silenziare il corpo è, d’altra parte, una delle cose che si cerca di fare quando si beve o ci si droga. 

Allo stesso tempo però, tanta parte del contenuto di cui fruiamo, tanto su TikTok quanto su altre piattaforme – come YouTube, o Instagram – parla ossessivamente di corpi. Anzi spesso parla del corpo proprio e di come plasmarlo (palestra, ricette, skin care routines), come abitarlo (body positivity, educazione sessuale/affettiva) o anche solo come sentirlo (yoga, meditazione). La recente esplosione del fenomeno della “that girl”, come brillantemente descritto da Alice Cappelle (sempre su YouTube, touché), manifesta proprio quella smania di controllo e ordine rispetto al proprio corpo che si compone di tutti gli elementi citati sopra e che ricorda tanto un tentativo di riappropriazione. Le “that girl” sono spesso ragazze tra i 20 e i 30 anni che svolgono uno stile di vita che si allinea col capitalismo etico (mediamente privilegiate, plastic free, impegnate ma non radicali, dedite al proprio lavoro) e che lo promuovono testimoniando la loro vita sui vari social

La dicotomia tra l’abbandono e il controllo del corpo può quindi essere una delle chiavi di lettura di una passività digitale e generazionale, che sottintende le dinamiche di molte attività virtuali a cui dedichiamo il nostro tempo. Una delle manifestazioni più plateali è la continua crescita e attrattiva di TikTok, attivamente pensato per richiedere e vivere della passività degli utenti. Ogni movimento diventa veicolo di significato, e, di conseguenza, dato utile alla sua crescita.

Immagine di copertina: L’attesa, illustrazione di Giulia Canetto (su Instagram @giunia.c)

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