Un sasso nello stagno

O della possibilità di una riabilitazione

psico-sociale attraverso l’arte.

Quello della salute mentale è un mondo in gran parte sconosciuto a chi non lo vive in prima persona. Stereotipi e stigma ancora contribuiscono a creare un immaginario nebuloso del malato mentale e le persone che si trovano a vivere situazioni di disagio — e con loro le famiglie — spesso faticano a chiedere aiuto. È a partire da queste istanze che nel corso degli ultimi vent’anni diversi psichiatri e collaboratori dell’IRCCS – Centro San Giovanni di Dio del Fatebenefratelli di Brescia si sono interrogati e attivati. L’esperienza è progressivamente confluita in un fondo della Fondazione SIPEC, Il sasso nello stagno, che ha come obiettivo quello di promuovere la salute mentale mediante la riabilitazione psicosociale attraverso la terapeutica artistica. È così che nel laboratorio de La Bottega dell’Arte dell’IRCCS prende vita un percorso maieutico che, integrandosi al lavoro di terapia medica e riabilitativa, mira alla fioritura integrale della persona (e non solo del malato). Di questo intervento di cura, rivolto all’individuo e alla comunità civile, abbiamo avuto modo di parlarne con la dottoressa Luciana Rillosi, psichiatra e collaboratrice storica del fondo, e con l’artista-terapista Guido Uggeri. 

Immagine gentilmente fornita dall’archivio della Bottega dell’arte.

Luciana, che cosa puoi dirci dello stigma legato alla salute mentale?

L: È ancora profondo, tant’è che cerchiamo di combatterlo in vari modi. L’obiettivo è di dire alla città che il malato non è solo deficit e mancanza, ma anche risorsa, creatività. Certo il compito di noi psichiatri è quello di intervenire sulle mancanze, cioè la patologia, ma qui in bottega si lavora per potenziare le parti sane, dare opportunità di normalità. La persona non è tutta malata. Nel momento in cui i nostri pazienti, per dirne una, vanno al laboratorio di Luciano Pea [ndr Spazio Pachiderma] al Carmine per imparare a fare le incisioni, tirano fuori una parte di sé inedita e possono confrontarsi con una rete reale di professionisti e cittadini, che a loro volta scoprono di non avere a che fare con malati, ma con persone. Quello che facciamo è creare momenti di conoscenza, per spaventarci di meno e integrare di più. Quando abbiamo inaugurato l’esposizione alla Fondazione Heller Garden di Gardone Riviera, alcuni giornalisti intervistando noi operatori ci hanno chiesto: «Ma loro lo sanno?».«Certo che lo sanno». «E cosa ne pensano?». «Scusi, ma perché lo chiede a me? Lo chieda a loro». «Perché sono qui?». «Certo che sono qui!». Ho chiesto alla persona interessata se se la sentiva di parlare con loro e l’hanno intervistata. Come se il “matto” non fosse una persona con cui si può parlare normalmente.

Certo è frustrante che quello dell’inclusione di fragilità e diversità rimanga spesso un obiettivo da perseguire solo sulla carta, mentre siamo immersi in una società della performance dove chi ce la fa è bravo e chi non ce la fa ne ha colpa. 

L: E che colpa ne ha uno se si ammala? La nostra società troppo spesso nega il disagio, la sofferenza, il limite, il vuoto. E questa dilagante pretesa di onnipotenza ci fa soffrire ancora di più. C’è una frase, che mi piace molto, ancora dell’epoca di Basaglia e della Cooperativa 180: «Da vicino nessuno è normale». Il concetto è che siamo tutti esseri umani. Per questo è importante costruire legami, dentro e fuori la nostra piccola comunità. Per i pazienti è fondamentale vedere che possono essere una risorsa per la società, da qui il lavoro continuo negli anni per fare rete con le istituzioni. E devo dire che abbiamo sempre trovato disponibilità. Gran parte del merito va al nostro artista-terapista Guido, che grazie alle sue abilità creative e maieutiche riesce a tirare fuori dai pazienti dei lavori belli, esteticamente rilevanti. A quel punto è gioco facile per noi, con un prodotto di valore, trovare porte aperte. Certo, le prime volte che siamo andati in Comune o a Brescia Mobilità a proporre installazioni per degli spazi pubblici abbiamo percepito un po’ di esitazione; ma è bastato farli venire in bottega a toccare con mano quello che facciamo, che non ci hanno pensato due volte a dirci di sì. La prima associazione con cui abbiamo iniziato a collaborare è stata quella degli Artisti Bresciani e andando avanti con gli anni sono stati in tanti ad accoglierci nei loro spazi, da Palazzo Martinengo al Museo di Santa Giulia

“Frattali”, installazione scultorea in metallo (2x2,5 m), collocata all’interno della stazione metropolitana de Lamarmora. Immagine tratta dal Quaderno della Fondazione SIPEC.

G: Il fondo si chiama Il sasso nello stagno proprio per questo: mette in relazione le tante entità che gravitano sul territorio bresciano e costituiscono la società civile, la polis. Questo è l’aspetto più sociale del progetto. Poi naturalmente c’è anche l’altro, ancora più importante, che è quello della cura. Questo lavoro di riabilitazione si basa sull’accoglienza dell’altro, sul dargli delle possibilità che non siano quelle della malattia. Cura significa mettersi nei panni dell’ospite e cominciare gradualmente a immergersi nel suo mondo — un mondo di sofferenza indubbiamente, che gli operatori psichiatrici cercano di aggiustare e correggere. L’arte in questo senso è una forma di educazione che aiuta la persona a creare un ponte con il mondo che sta al di fuori, a far emergere ciò che è dentro per vederlo da un punto di vista esterno. Ti faccio un esempio. Un giorno mi hanno portato un paziente, era molto in ansia. Siamo usciti fuori a rompere della legna — nel processo di cura proprio della terapeutica artistica, il condividere un’attività diventa in qualche modo una forma di disponibilità all’ascolto. A un certo punto ha trovato un bastone che in qualche modo gli corrispondeva e ha iniziato a lavorarlo. Il significato che gli ha dato è quello di un percorso a tre tappe. La prima è quella della partenza: l’inizio del lavoro su se stesso, un germogliare possibile. Prosegue scheggiandolo, fino ad arrivare alla parte finale che coincideva con la sua arrabbiatura. Questa parte l’ha lavorata con molta energia, bruciandola, perché era così che si sentiva in quel momento. E ragionandoci su insieme, giocandoci — anche perché ha una personalità molto filosofica — è venuto fuori che il carbone è un inizio, è l’inizio della vita. Lo stesso fuoco che distrugge è anche rigenerazione. Il risultato finale del suo lavoro è diventata una lancia, che ha voluto mettere tra queste due pietre: la prima scheggiata, con gli spigoli vivi, la seconda liscia. E questa è bene o male la metafora della Bottega dell’arte e del lavoro che stiamo facendo con Luciana: il paziente arriva qui imprigionato, legato e ferito e ne esce poi in qualche modo con gli spigoli arrotondati, accolto. Questo processo che ha fatto l’acqua con la pietra, lo fa l’arte, lo facciamo noi. Noi ci crediamo. Poi purtroppo la malattia tende sempre a soverchiare le azioni della persona e la sua volontà. Perché la malattia c’è, giusto Luciana?

L: C’è e noi non vogliamo negare il disturbo. La stessa lotta allo stigma non vuole essere un tentativo di normalizzare o, peggio, negare la malattia. Siamo tutti diversi e di malattie belle io non ne conosco. In ambito psichiatrico poi non si può generalizzare: ci sono malattie più o meno gravi, sia da un punto di vista psicopatologico che funzionale. Questo non va negato, ma bisogna accettare il fatto che si può essere diversi e che anche con una malattia si può vivere nel modo più soddisfacente e dignitoso possibile. È innegabile che siamo ambiziosi: cura della polis, cura del singolo e cura del gruppo — stiamo parlando di persone che fanno fatica a fare le cose con gli altri.  La comunicazione spesso non è verbale, e passa più per altri canali. Ma grazie alla facilitazione di Guido i pazienti riescono lavorare insieme, a sentirsi parte di un gruppo. Questo è fondamentale per il malato mentale che ha spesso una percezione negativa di sé e del proprio lavoro. In questo senso il gruppo, nel momento in cui dà riconoscimento, è una grande forza. Non si è più soli, ma ci si rispecchia nello sguardo dei compagni.

Guido, le tecniche che fai sperimentare ai pazienti sono suggerite sempre dalla loro personalità e dal loro stato emotivo, o possono essere legate anche a percorsi strutturati a priori?

G: È complesso, dipende un po’ da caso a caso. Un ospite una volta mi ha confidato: «Nessuno mi ha mai detto che quello che facevo poteva andare bene». Si tratta di una persona che ha guidato per quindici anni un camion e si è ritrovato qui da qualche anno a questa parte. Quello che abbiamo fatto è stato prendere una fiamma e della carta termica, quella dei vecchi fax. Se la scaldi, utilizzando anche vecchi oggetti di ferro come chiavi e ingranaggi, cominci gradualmente a dare forma a qualcosa di nuovo.

Fotografia dell’autrice

L: È la bonifica: la bruciatura vista come qualcosa di distruttivo può essere bonificata attraverso un atto estetico. I malati a volte perdono il senso della bellezza, perché vedono tutto negativo. Riuscire a fargli vedere il mondo in maniera diversa è un atto creativo e un atto di cura.  

Quindi è anche riproponendo degli elementi negativi noti in un contesto positivo inedito che gradualmente cambia la loro percezione del reale e di sé stessi?

G: Gli si offre un supporto diverso che non sia quello della propria pelle e si crea gradualmente un percorso nell’esperienza. Dal lavoro iniziale con le forme si passa infatti, attraverso una pratica di storytelling guidato, alla creazione di piccoli libretti. Così facendo si aiuta la persona a rimettere insieme i pezzi in modo da dare loro un nuovo significato. Sperimentano la soddisfazione di aver progettato qualcosa e di essere riusciti a concretizzarlo. È il primo passo per capire che ricrearsi una vita propria è possibile.

L: E questo ovviamente ha bisogno prima di tutto di qualcuno che riesca a vederlo e questo è possibile grazie alla costante opera di maieutica messa in atto da Guido. Occorre poi considerare che la malattia nei casi più gravi coinvolge la memoria di lavoro, la capacità di problem solving e problem finding. Per capirci, nemmeno mettere insieme un piatto di pasta è scontato se la memoria di lavoro è interrotta. Per cui questo processo, ovviamente accompagnato, che fa vedere tutta un’evoluzione procedurale comporta un intenso lavoro a livello di quelle funzioni cognitive che sono state compromesse dalla malattia. Quella che fa Guido attraverso la pratica artistica è una riabilitazione cognitiva concreta, oltreché psico-sociale naturalmente.

Ringraziando per la partecipazione la dottoressa Luciana Rillosi e l’artista-terapista Guido Uggeri, vogliamo fare menzione di alcune tra le persone che, pur non essendo state citate nell’intervista, collaborano attivamente alle iniziative del fondo Il sasso nello stagno:

Rossella Beneduce, medico psichiatra
Elena Bertocchi, coordinatore professioni sanitarie
Giuseppe Rossi, medico psichiatra
Roberta Rossi, psicoterapeuta

Immagine di copertina: Immagine gentilmente fornita dall’archivio della Bottega dell’arte

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