
La memoria è una facoltà, una capacità comune a tutti gli uomini. Tuttavia, ricordare può essere, in alcuni casi, un processo necessario ma contemporaneamente doloroso. Molti autori hanno avuto una estrema difficoltà, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, a recuperare l’esperienza traumatica che avevano vissuto. Non è solo infatti «memoria della paura » ma «paura della memoria: ostinata resistenza a trarla alla luce, quella memoria; a disseppellire resti a lungo considerati, alla lettera, innominabili»[1].
Primo Levi è un autore ormai conosciuto e riconosciuto, letto e riletto, dalle aule scolastiche alle cerimonie della giornata della memoria. Tuttavia, tra le mani dei lettori si ritrova spesso Se questo è un uomo, e seppure si rimanga colpiti dal componimento in apertura, la sua raccolta poetica Ad ora incerta non ha sicuramente avuto lo stesso successo. Lo stesso autore, nella nota iniziale alla prima edizione del 1984, scriveva riguardo alla sua scelta di scrivere poesie, che con modestia, non riteneva eccellenti:
« […] Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono. Anch’io ad intervalli, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istinti (in media non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale»[2].
Questo atteggiamento è ribadito nel componimento Un mestiere, in cui, sottolinea, nell’ultimo verso «Abbi soltanto cura di non presumere»(OI, p.68)[3].

Nella raccolta poetica non c’è una tendenza a focalizzarsi su un io lirico ben definito, ma piuttosto i testi sono caratterizzati da una «universalizzazione dell’esperienza personale»[4], come evidenza Cesare Segre. Primo Levi, dunque, vuole dar voce non soltanto al proprio passato, ma anche a quello di chi non ha ancora il coraggio di rievocarlo. Questa profondità si riscontra, appunto, nel già citato testo in epigrafe a Se questo è un uomo, ovvero Shemà:
Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi: / Ripetetele ai vostri figli (OI, p. 17).
La scelta del titolo della raccolta, invece, è tratto da Coleridge, il cui verso è citato nel componimento Il superstite:
Since the, at un uncertain hour, / Dopo di allora, ad ora incerta / Quella pena ritorna, / E se non trova che lo ascolti / Gli brucia in petto il cuore. (OI, p. 70).
In alcuni componimenti rivela con forza il dolore incessante vissuto nel lager e che trova corrispondenza con il processo iterativo[5], sottolineando la monotonia quotidiana del disfacimento personale, come si riscontra in Buna, uno dei settori di Auschwitz:
Fuma la Buna dai mille camini, / Un giorno come ogni giorno ci aspetta. / Terribili nell’alba le sirene: / «Voi moltitudine dai visi spenti, / sull’orrore monotono del fango / è nato un altro giorno di dolore» (OI, p. 13),
oppure in Alzarsi, che reitera il comando “Wstawac”:
Tornare; mangiare; raccontare. / Finché suonava breve sommerso / Il comando dell’alba: / «Wstawac» (OI, p. 18).
Primo Levi non è però autoreferenziale, universalizza la sua esperienza, dà voce a chi non riesce a disseppellire la memoria, come in alcuni componimenti dedicati alle esperienze partigiane, come Epigrafe:
Da non molti anni giaccio qui, Micca partigiano / […] Solo una cosa chiedo: che questa mia pace duri, / Che perenni su me s’avvicendino il caldo e il gelo / Senza che nuovo sangue, filtrato attraverso le zolle / Penetri fino a me col suo calore funesto / Destando a nuova doglia quest’ossa oramai fatte di pietra (OI, p. 29),
o Partigia, in cui sottolinea come la funzione civile di essi è destinata a ripetersi:
La nostra guerra non è mai finita (OI, p. 54)

Primo Levi è consapevole che la sua vita non può essere eterna e che tramite le sue parole ha il compito di passare il testimone ad una nuova generazione, che, seppur drammaticamente sommersa da contrasti internazionali, distruzione di ecosistemi e sistemi economici diseguali, non può considerare la precedente generazione come intoccabile, come scrive in Delega:
Non sgomentarti delle macerie / Né del lezzo delle discariche: noi / Ne abbiamo sgomberate a mani nude / Negli anni in cui avevamo i tuoi anni. / Reggi la corsa, del tuo meglio. Abbiamo / Pettinato la chioma delle comete, / Decifrato i segreti della genesi / Calpestato la sabbia della luna, / Costruito Auschwitz e distrutto Hiroshima. / Vedi: non siamo rimasti inerti. / Sobbarcati, perplesso; Non chiamarci maestri (OI, p. 100).