Di grandi dimissioni e YOLO economy: è ancora “colpa” dei Millennials?

Quando i dati su un fenomeno psicosociale di rilevanza mondiale sono pochi, il rischio è quello di cadere in interpretazioni infondate, o quantomeno azzardate. Una psico-riflessione in risposta alle ennesime accuse ai giovani.

Ormai da mesi si parla di “Great Resignation” anche in Italia. Un’espressione d’effetto, coniata quasi per caso da Anthony Klotz, psicologo del lavoro e professore di management alla Texas A&M University: la utilizzò infatti per la prima volta tra le mura domestiche, durante una chiacchierata in merito ad un’imminente ondata di dimissioni che, a suo parere, avrebbe travolto l’economia degli Stati Uniti d’America subito dopo la pandemia. Profezia o intuizione di uno scienziato lungimirante? Rimane il fatto che a partire da Aprile e per tutto il 2021, ogni mese circa 4 milioni di lavoratori americani hanno dato le dimissioni. Si tratta del 3% dei lavoratori americani, ogni mese. L’anno si è chiuso con un totale di circa 47.4 milioni di dimissioni volontarie contro i 42 milioni del 2019 e i 36 milioni del 2020.

Perché? I fattori maggiormente chiamati in causa nel tentativo di rispondere a questa domanda sono: l’impatto della pandemia sulla psiche dei lavoratori (il più gettonato – ma se fosse solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso?); i turni lavorativi insostenibili – soprattutto in alcuni settori -; la ricerca di un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata; i salari non adeguati al carico del lavoro; le incomprensioni con i datori di lavoro; mancanza di flessibilità di orario; la nuova attenzione alla salute mentale e ai sintomi del burnout.

Entrare in contatto con la fragilità e la fallibilità degli esseri umani di fronte alla malattia e alla morte porterebbe con sé inevitabili importanti domande esistenziali: «Cosa dà senso alla mia vita? Cosa mi fa stare bene? Quale voglio che sia il mio contributo nella società? Sto investendo il mio tempo in modo coerente con le risposte a queste domande?». Si tratta di riflessioni che spesso si traducono in importanti cambi di direzione.

Solitamente i momenti in cui siamo assaliti da queste domande sono diversi a seconda delle vicende di vita di ognuno di noi, ma nel 2020 il tempo della pandemia ha messo tutti in una simile condizione di fragilità esistenziale, ora forse aggravata dalle cronache di una guerra che non è mai stata così vicina.

Insomma, la crisi esistenziale del singolo è diventata rapidamente un fenomeno sociale.

Come potevano, infatti, questi diffusi quesiti esistenziali non impattare sulle scelte lavorative, in un mondo in cui il lavoro ha un ruolo centrale nella definizione di chi si è e occupa la maggior parte del tempo che si ha?

Il costrutto psicologico del Sé (ovvero la risposta che ognuno si dà alla domanda “Chi sono io?”) è fortemente influenzato dall’esperienza sociale e dai ruoli che si assumono in diverse situazioni. Tanto più numerosi e svariati sono gli aspetti del Sé che le persone sviluppano in relazione ai diversi ruoli assunti, alle diverse attività svolte e ai diversi rapporti sviluppati, quanto più il Sé acquisisce complessità. Il fatto è che nell’economia occidentale degli ultimi decenni per molti individui il lavoro ha ottenuto il monopolio sul Sé. Si è quel che si fa. E se questa produzione si ferma? E se quel che facciamo non ci piace poi così tanto? Cosa resta del nostro Sé?

Se il Sé fosse sufficientemente complesso, resterebbero tutti gli altri aspetti che lo compongono: quelli legati ai ruoli in famiglia, nelle associazioni, nei gruppi di amici, nelle attività che si svolgono al di fuori dell’ambiente lavorativo. Un’elevata Complessità del Sé, infatti, proteggerebbe da deflessioni del tono dell’umore e dell’autostima, in quanto un evento negativo avrebbe effetto diretto solo sugli aspetti del sé ad esso legati e non su tutto l’individuo.

Un’ipotesi è però che il lockdown abbia scatenato la presa di consapevolezza di quei Sé che si erano costretti ad una scarsa complessità per concentrarsi sul lavoro, per poi trovarsi soffocati in un’attività in realtà dissonante con il Sé che si sarebbe voluti essere.

La YOLO economy e il boom di dimissioni volontarie potrebbero non essere altro che il macro-effetto di questa crisi esistenziale sul mondo del lavoro, legata all’impossibilità di soddisfare il proprio bisogno di autorealizzazione esclusivamente nel lavoro (o per lo meno non in quel lavoro). Il motto è quello coniato dal rapper Drake, “You Only Live Once”, ovvero “Si vive una volta sola” (ci volevano una pandemia e un rapper per realizzarlo?). La filosofia è quella del vivere a pieno la propria vita, ridimensionando il ruolo e il tempo del lavoro nella definizione del proprio sé e delle proprie giornate, scegliendo un lavoro che sia in linea con chi si è, che sia esso stesso una passione o che permetta di avere del tempo libero di qualità per coltivarne, che non mini la salute fisica e mentale.

Il mondo del lavoro è ancora lontano dal poter soddisfare richieste. Il cambiamento è impegnativo, entusiasma tanti ma spaventa i più, e non tutte le realtà toccate dal fenomeno della Great Resignation sono pronte ad affrontarlo. Negli Stati Uniti tanti già parlano di una necessaria “Great Revolution” del lavoro. Chi sarebbero i ribelli? In America la spinta a questo cambiamento sembrerebbe arrivare dai lavoratori tra i 30 e i 45 anni, per i quali il tasso di dimissioni è aumentato del 20% tra il 2020 e il 2021. Si tratta di giovani, ma non alle prime esperienze.

Come spesso succede in ambito economico e sociale, in pochi mesi il fenomeno ha attraversato l’Atlantico e ha raggiunto l’Europa. La Germania sembra essere lo stato più “colpito” dall’aumento delle dimissioni, ma anche in Italia numerose testate giornalistiche hanno segnalato trend allarmanti. Il mondo dell’economia sembra terrorizzato, e mentre qualcuno si appresta a studiare soluzioni altri cercano capri espiatori. Ma il fenomeno è ancora in essere, le informazioni a riguardo sono incomplete ed è facile cadere in scorciatoie passibili di errore (le cosiddette euristiche, modalità di pensiero utilizzate dal nostro sistema cognitivo quando le risorse o i dati disponibili sono limitati).

L’espressione YOLO suona poco seria alle orecchie di tanti imprenditori, CEO e managers italiani che temono gravi conseguenze economiche. Su un articolo del Sole 24 Ore si legge che la filosofia YOLO “non ammette stress e fatica”, “si diffonde come un virus”, “porta a passaggi da un posto di lavoro all’altro alle prime tensioni”.  La YOLO è interpretata come un pericoloso capriccio. Di chi? Dei soliti Millennials, quella generazione spesso definita fannullona, choosy e propensa al rischio (e che si trova però a raccogliere i cocci lasciati dalle generazioni precedenti: cocci legati a questioni ambientali, sanitarie, economiche e sociali e che hanno un peso enorme sulla psiche di chi si appresta a pianificare il proprio futuro). Il collegamento YOLO-Millennials, seppur non del tutto insensato visti i dati sugli Stati Uniti e le origini dell’acronimo, appare quantomeno affrettato in relazione ai dati italiani.

I dati disponibili sull’Italia arrivano solo fino al terzo trimestre del 2021 ma sono già interessanti. Come spiega il ricercatore della London School of Economics Francesco Armillei, qui il fenomeno è 3 volte più lento rispetto agli Stati Uniti: a dimettersi è il 3% dei lavoratori ogni 3 mesi. Le dimissioni riguardano maggiormente i contratti a tempo determinato (sono cresciute oltre il 20% e costituiscono circa la metà del totale delle dimissioni del 2021): i lavoratori non sembrano lasciare grandi certezze, il famoso “posto fisso”. Ancor più interessanti sono le caratteristiche demografiche di chi si dimette in Italia: l’aumento percentuale di dimissioni dal 2019 al 2021 sale al crescere dell’età al momento della dimissione del lavoratore (con un picco di +21% per la fascia 50-64, non certo Millennials). Ad oggi, chi si dimette in Italia forse non conosce nemmeno l’acronimo YOLO, ma di sicuro ricorda il “Carpe Diem”. Rispetto alla popolazione di dimessi nei primi tre trimestri del 2021 tuttavia, il peso delle diverse fasce d’età sul totale è simile.

Certo, questi dati sono ancora incompleti, ma sollevano alcune questioni: siamo sicuri che la retorica allarmante con cui si tende a parlare del fenomeno della Great Resignation in Italia sia utile? Le dimissioni possono diventare un’occasione di cambiamento per le organizzazioni che ricevono questi feedback dai loro dipendenti? Può questa situazione far nascere vere “learning organizations” capaci di migliorare il benessere dei lavoratori? Si tratta di un fenomeno tutto dei Millennials propensi al rischio, o questa crisi esistenziale riguarda tutte le generazioni? Fino a che punto ha senso per i lavoratori tollerare la frustrazione? Infine, se anche fossero i Millennials a guidare questa rivoluzione, siamo sicuri che sia una loro “colpa”?

Potremo rispondere a queste domande solo quando avremo altri dati.

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