
È difficile stabilire quali siano i segni del passaggio all’età adulta: ogni cultura ha una risposta diversa a questo interrogativo e le risposte cambiano nel tempo. A partire dagli anni Sessanta nei paesi ad alto reddito la concezione della transizione all’età adulta si è fortemente modificata. Da un tradizionale focus su eventi specifici (primo contratto di lavoro, coinvolgimento in una relazione sentimentale stabile e/o uscita dalla casa della famiglia d’origine, genitorialità) si è passati ad una visione sempre più graduale e fluida, basata su marcatori psicologici come il raggiungimento dell’autonomia nella presa di decisioni e l’assunzione di responsabilità di diversa natura. All’interno del ciclo di vita, inoltre, l’ingresso all’età adulta ha subìto un’importante traslazione in avanti nel tempo. Fino all’età di circa 29 anni, molti giovani affermano oggi di “non sentirsi ancora adulti”. Se si guarda poi ai sopracitati eventi tradizionalmente considerati riti di passaggio per la definizione dell’individuo adulto, recenti dati mostrano come questi avvengano circa 8-10 anni più tardi rispetto a mezzo secolo fa. [1]
Nella società contemporanea occidentale, il periodo tra i 19 e i 29 anni sembra costituire per l’individuo un nuovo stadio di sviluppo psicologico e sociale, caratterizzato da aspetti propri e ben distinti sia dall’adolescenza che dall’età adulta. Jeffrey Arnett, psicologo e ricercatore della Clark University, definisce questa nuova fase evolutiva con l’espressione emerging adulthood, sottolineando con l’aggettivo “emergente” come, fino a circa 29 anni, “essere adulti” sia qualcosa in fieri, in divenire. Secondo Arnett, i giovani in questa fascia d’età sarebbero coinvolti in una costante ricerca identitaria e vivrebbero una condizione di instabilità economica e relazionale. Tipica sarebbe anche la percezione di avere tempo e possibilità di fare tante scelte ragionate quanti improvvisi cambi di rotta. Salta subito agli occhi l’ambivalenza di questi aspetti. Se da un lato questa protratta fase di maturazione personale e sociale offre grandi opportunità, dall’altro sembra anche esporre a vissuti critici, che impongono una riflessione sulle eventuali implicazioni per la salute mentale.

Durante gli anni di università, tra libri e “pause caffè” nelle aule studio di Brescia e Padova, ho notato da parte dei miei coetanei crescente sensibilità ed interesse per il tema della salute mentale. Mi son presto resa conto di come il vortice di desideri, disillusioni, incertezze e grandi ideali in cui ci eravamo da poco addentrati ci stesse ponendo di fronte a quesiti sulla nostra identità, sui nostri obiettivi e sulla nostra vita relazionale. Eravamo consapevoli delle infinite possibilità che ci trovavamo davanti e la potenziale carica motivazionale di questa consapevolezza non più adolescenziale era evidente per tanti di noi. Tuttavia, questo limbo sembrava (e sembra tuttora!) portare con sé una tendenza a rimuginare e a sperimentare vissuti di sofferenza legati ad una o più sfere di vita (professionale, universitaria, famigliare, relazionale).

Il pericolo è che, se non riconosciute ed intercettate, tali sofferenze si traducano in stati ansiosi o in sintomi depressivi quali difficoltà a concentrarsi, perdita di energie, nervosismo, difficoltà nel prendere decisioni, insoddisfazione, senso di vuoto o di impotenza, auto-criticismo ed isolamento, alterazioni del ritmo sonno-veglia. Uno studio americano del 2014 ha evidenziato in modo preoccupante come il 56% di un vasto campione di giovani universitari riportasse di “sentirsi spesso ansioso” e il 32% di “sentirsi spesso depresso” [1]. In assenza di psicopatologie pregresse e di manifesti fattori di rischio (quali lutti, malattie o altre esperienze traumatiche) per lo sviluppo di sintomi psicopatologici, cosa può rendere così vulnerabili i “ragazzi quasi adulti”?
Un aspetto critico risiede nella ricerca identitaria. Per capirci, le note domande esistenziali: “Chi voglio diventare? Cosa voglio realizzare?”. L’incertezza che caratterizza la visione del futuro di chi oggi ha vent’anni sembra rendere azzardato l’investimento nell’esplorazione approfondita di una sola alternativa per lo sviluppo della propria identità, sia professionale sia relazionale. Si opterebbe così per stati identitari tradizionalmente definiti con i termini “moratoria” (non-scelta o prese di decisioni contingenti, evitamento di una progettualità a lungo termine) e “diffusione” (esplorazione parziale di diverse alternative e scarso coinvolgimento): condizioni che denotano rispettivamente stallo e confusione, correlate ad elevati livelli di rimuginio e di distress.
D’altro canto, anche quando impegnati attivamente in percorsi di studio o lavoro soddisfacenti e relazioni stabili, tanti emerging adults si trovano ad affrontare un’instabilità forzata. È questo il caso dei giovani universitari, spesso economicamente vincolati alla famiglia di origine, solo parzialmente indipendenti nelle loro scelte e con poche garanzie sul proprio futuro lavorativo. L’avvenire incerto e la dipendenza economica si legano sovente ad una forte percezione di inadeguatezza e alla convinzione di dover “essere più adulto”. A ciò si aggiunge, per molti fuorisede, una condizione di instabilità anche in termini di domicilio (diviso tra la città d’origine e il luogo in cui si studia/lavora) e di conseguenza in termini di investimento su relazioni significative in grado di garantire loro una rete di supporto sociale. Quest’ultima, importante fattore di protezione da sintomi depressivi, diventa per lo più difficile da costruire e mantenere in un periodo di vita in cui si è particolarmente concentrati sullo sviluppo di se stessi.
Da non fraintendere: ciò non significa essere egoisti! Anzi, tanti giovani investono tempo ed energie in attività di rilevanza sociale come il volontariato. Tuttavia, è forse questo il momento della vita in cui si hanno meno responsabilità e vincoli dal punto di vista relazionale e in cui si può essere maggiormente autocentrati: non si deve più rendere conto alla famiglia d’origine, non si occupa ancora uno stabile ruolo sociale o lavorativo e non si è ancora responsabili di nuovo nucleo famigliare. In nome di questa libertà, la maggior parte dei giovani è d’accordo nel descrivere questo periodo come entusiasmante ed imprevedibile. Proprio nello slancio a cogliere le diverse opportunità di questi anni si può però incappare in alcuni ostacoli.
Pertanto la sfida, sia per chi vive la transizione all’età adulta sia per i professionisti della salute mentale, è proprio quella di saper cogliere l’unicità di questo processo evolutivo. Diventa infatti fondamentale iniziare a riconoscere quando vissuti di sofferenza (ed eventuali sintomi di tipo ansioso o depressivo) riflettano normali criticità dettate dai compiti di sviluppo e quando invece si possa trattare di campanelli d’allarme per lo sviluppo di psicopatologie. L’obiettivo è aumentare la consapevolezza e la sensibilità per questo tema per permettere, a chi ne sentisse il bisogno, di chiedere aiuto senza paura dello stigma.
“[…] i vent’anni ti minacciano, / grigiorosea nube / che a poco a poco in te si chiude.”: già quasi un secolo fa, Eugenio Montale svelava così, in “Falsetto”, l’ambivalenza del passaggio dalla giovinezza all’età adulta, affascinato ed angosciato dalle sue incognite e dalla sua insidiosa ed avventurosa istintualità.
[1] Arnett, J. J., Žukauskiene, R., & Sigimura, K. (2014). The new life stage of emerging adulthood at ages 18-29 years: implications for mental health. Lancet Psychiatry, 1, 569-576.