
Il 31 gennaio 2020 la bandiera inglese della Union Jack è stata simbolicamente rimossa da Palazzo Europa, sede del Consiglio Europeo, rendendo a tutti gli effetti la Brexit un fatto storico. Il 23 giugno 2016, data del Referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’UE, sarà ricordata in futuro come il momento in cui la narrazione europeista, dopo più di 60 anni di continuità, è stata spezzata dall’evento della disintegrazione. Con la Brexit, il tabù dell’abbandono è stato sdoganato. Ma se, ora che la strada è battuta, qualcun altro volesse percorrerla? Prendiamo in considerazione la Polonia.
Negli ultimi anni la Polonia non è stato un soggetto politico di facile gestione per l’UE. Tanti sono i temi in cui si è consumato e continua a consumarsi un progressivo scollamento tra i valori sottoscritti dai due soggetti politici: pensiamo ai diritti delle comunità LGBTQI+, all’aborto, alla questione dei rifugiati, all’obiettivo della Climate Neutrality entro il 2050 o della gender equality (giusto un paio di settimane fa, Ungheria e Polonia hanno lottato affinché il termine venisse eliminato dal Gender Action Plan III). Ultimo ma non per importanza, il recente veto sul Budget Europeo, legato alla maldigerita intenzione di condizionare lo stanziamento dei fondi a delle garanzie sullo Stato di Diritto e sulla protezione dei diritti umani.
Ma perché speculare su una potenziale Polexit? A farne parola è stato Tomasz Grodzki, a capo del Senato Polacco, il quale, attraverso un appello televisivo, ha avvertito il partito reggente Diritto e Giustizia (PiS) di recedere dall’aspra e corrosiva retorica antieuropeista, ritirando il veto. Se i giochi del populismo e del blame-shifting funzionano nel breve periodo, alla lunga rischiano di allontanare definitivamente la Polonia dall’Unione. Le posizioni intraprese dal PiS manifestano infatti un’insofferenza nei confronti dell’UE più profonda e strutturale rispetto a quella emersa con la Brexit. Se nel 2016 l’accento veniva posto sul tema della Sovranità nazionale, minata da un’Europa tecnocratica e con velleità federaliste, l’euroscetticismo polacco, oltre a condividere queste argomentazioni, va più a fondo, attaccando direttamente l’assiologia – ovvero la teoria/struttura dei valori – su cui l’Unione si fonda. Prendendo in esame gli argomenti di controversia tra UE e Polonia, i quali non hanno una natura tecnica né economica ma etico-politica, si intuisce che la Polonia non sembra condividere le basi valoriali dei trattati europei.

Credits: EPA-EFE/Jakub Kaminski
Accusata di avere ripudiato l’originario progetto democristiano da cui è nata, l’attuale Unione Europea viene tacciata di essere un’istituzione della sinistra liberale, silenziosamente ma sistematicamente oppressiva. Serviamoci di un esempio recente: a seguito della critica, da parte dell’Europarlamento, nei confronti della controversissima modifica alla legge sull’aborto, il Ministro dell’Educazione e della Scienza Przemysław Czarnek ha dichiarato che l’UE abbraccia, seppur inconsciamente, un «Marxismo Contemporaneo» e riassume «l’immagine della civiltà della morte», rischi da cui «Giovanni Paolo II aveva messo in guardia».
Queste parole riassumono al meglio la retorica populista del PiS: un’assiologia cristiano-cattolica fortemente conservatrice, una coscienza storica collettiva segnata dal trauma sovietico e un’identità religiosa che deve essere ora difesa dal nichilismo liberalista, dopo essere sopravvissuta alla dittatura sovietica attraverso il movimento democristiano di Solidarność (ben descritto da questo podcast della BBC).

Illustrazione di Luca Gabrieli.
In altre parole, il PiS non ha fatto altro che raccogliere e incanalare la disillusione polacca nei confronti del progetto europeo. Emancipatasi dal Comunismo nel giugno 1989, nel corso degli anni ‘90 la Polonia ha infatti alimentato il proprio entusiasmo politico sull’onda di un futuro accesso all’Occidente della NATO (avvenuto nel 1999) e dell’UE (2004), le quali esercitavano un forte fascino atlantista. Nonostante ciò, le aspettative non sono state rispettate, motivo per cui il disincanto ha preso il posto dell’entusiasmo: la Polonia si è d’un tratto trovata a confrontarsi con un’Europa differente e secolarizzata. L’Europa reale, diversa da com’era stata immaginata, ha portato la Polonia a soffrire di un crescente scarto tra i propri valori e quelli europei; scarto che, con il tempo, si è trasformato in criticismo, disillusione e resistenza, in direzione di una retrotopia idealizzata e utopica, quella dell’Europa immaginata. Risultato: oggi la Polonia, insieme alla fedelissima alleata Ungheria, si auto-definisce fieramente illiberal democracy, qualifica che al meglio riassume, al contempo, l’incanto storico e il disincanto assiologico vissuto nei confronti dell’Europa.
Di fronte a uno scoglio così grande, ci si potrebbe legittimamente chiedere che interesse abbia l’UE affinché Stati dissidenti come la Polonia rimangano membri, ostacolando il processo di integrazione. Perché fare parte di una famiglia e di un ideale politico con cui si ha poco o nulla da spartire? Perché favorire un antagonista, finanziandolo con ingenti fondi strutturali (86 miliardi tra il 2014 e il 2020, 173 miliardi tra il 2021 e il 2027)? L’espulsione sembrerebbe quindi essere la conseguenza immediata. La tolleranza non può tollerare l’intollerante, o sbaglio? Sbagliato.
Agire di pancia, rassegnandosi senza troppi patemi a una Polexit o – peggio – adoperandosi attivamente per la sua realizzazione, sarebbe quanto di più ingenuo e antieuropeo l’Unione possa mai considerare come risposta. Da un punto di vista quantitativo, perseguire questo obiettivo significherebbe condannare la Polonia, e soprattutto i suoi cittadini, a una recessione economica – l’80% dell’export nazionale è diretto al mercato europeo – e ad una potenziale assimilazione della nazione all’interno di sfere di influenza esterne (come Russia o Cina). Da un punto di vista qualitativo, invece, significherebbe letteralmente voltare le spalle ai diritti del popolo polacco, spianando la strada a ulteriori contrazioni democratiche nel paese e svuotando di significato, non solo retorico ma anche politico, il valore della Cittadinanza Europea.