
In un op-ed pubblicato sul giornale Die Welt lo scorso 21 settembre, l’Europarlamentare tedesco e membro dell’EPP (Partito Popolare Europeo) Dennis Radtke ha fortemente criticato la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, accusata di scarsa aderenza alla propria famiglia partitica. Tacciata di dare spazio a una retorica fatta di titoli da prima pagina e green slogan, la presidente VdL, a detta di Radtke, mancherebbe di leadership e carattere democristiani, così come della tradizionale concretezza politica che contraddistingue il Partito Popolare Europeo.
Nato nel 1976, l’EPP si pone in linea di continuità con la tradizione giudaico-cristiana che ha plasmato il pensiero storico e filosofico europeo. Mantenendo fede ad alcuni principi democristiani quali un’etica del compromesso e della concretezza, un solidarismo sociale e uno spirito tendenzialmente conservatore, l’EPP si presenta come forza filo-europeista a favore di un’Europa trasparente e democratica. Dotato di storia e tradizione, l’EPP rappresenta lo spirito politico originario dei padri europei (Schuman, De Gasperi, Adenauer).
Tornando alla querelle: ad essere andato di traverso al partito è stato l’ambizioso rilancio della Commissione che, recentemente, ha posto come obiettivo la riduzione delle emissioni di CO2 del 55% entro il 2030, rispetto all’originale 40% stabilito dall’accordo di Parigi. A detta di Radtke, una politica democristiana dovrebbe «creare un equilibrio tra interessi. Così come l’economia sociale di mercato […] ha ottenuto un equilibrio tra capitale e lavoro, oggi dobbiamo ponderare economia e ambiente». Tradotto: la Presidente manca di realismo e senso pratico.
Aldilà della legittimità o meno della critica, il sottotesto politico che emerge è chiaro: una frazione del partito non si sente rappresentata da colei che dovrebbe esserne l’esponente di punta. Partiti nazionali, quali Forza Italia, il Partito Popolare Spagnolo e una frangia del CDU tedesco (di cui sia Radtke che VdL sono membri), sembrerebbero condividere, seppur non apertamente, lo scetticismo.
Dal punto di vista della Presidente VdL, l’assunzione di una carica dal carattere fortemente ‘ecumenico’ come la Presidenza della Commissione Europea (volta al consenso, piuttosto che alla frammentazione) ha sicuramente contribuito a una certa emancipazione rispetto alle logiche, così come alle conflittualità, di partito. In tempi recenti, una frangia si è infatti radicalizzata, creando disaccordo interno: si pensi a partiti quali Fidesz (attualmente sospeso dall’EPP), il Partito Democratico Sloveno (SDS), o il Partito Progressista Serbo (SNS). Pur rappresentando a livello quantitativo (numeri di seggi all’Europarlamento, per esempio) una piccola minoranza, l’insidia di una deriva ‘qualitativa’, relativa ai valori che il partito riconosce e difende, esiste. Il rischio di essere eccessivamente risucchiata in una spirale di screzi interni all’EPP, quindi, ha portato la Presidente VdL a un parziale affrancamento dal proprio partito. Ma esiste forse una ragione più profonda alla base di questo comportamento.
Contestualizziamo: l’operato dell’ex-presidente della Commissione Jean-Claude Juncker è stato caratterizzato da un alto livello di fedeltà e coinvolgimento della propria famiglia politica. Afferma Radtke: «Juncker conosceva ognuno all’interno del gruppo. Lei (la Presidente VdL, ndr) è nuova […], non ha il suo istinto politico». Juncker è stato eletto nel 2014 attraverso la nuova procedura dello Spitzenkanditat. Questa pratica, promossa nel tentativo di dare maggiore legittimità democratica alla Commissione, prevede che ogni partito europeo designi un proprio candidato; a seguito delle elezioni europee, il gruppo europarlamentare avente ottenuto il maggior numero di seggi propone il proprio ‘uomo’ al Consiglio Europeo.

Il procedimento dello Spitzenkanditat ha sicuramente dei vantaggi oggettivi. Uno su tutti, quello di fornire un’alternativa alla tradizionale procedura di nomina ‘tecnocratica’, la quale prevede una negoziazione tra i capi di Stato all’interno del Consiglio Europeo. Tuttavia, questo nuovo sistema potrebbe esitare in un eccessivo condizionamento avvertito dal Presidente nei confronti del proprio partito. Partito in cui non solo egli rifletterebbe la propria identità politica, ma verso il quale nutrirebbe un debito reale, avendolo, quest’ultimo, designato e promosso in prima persona.
Se confrontata con il suo predecessore, la Presidente VdL si mostra invece molto più affrancata dalla linea partitica. Eletta nel luglio del 2019, la presidente non figurava nella lista degli Spitzenkanditat ma, a fronte delle difficoltà del Consiglio nel trovare un accordo sui candidati, il suo nome è stato proposto da Emmanuel Macron come alternativa ‘tecnocratica’. VdL ha dovuto quindi lottare per convincere i vari partiti europei, contrari all’ipotesi, sempre più concreta, di un Presidente della Commissione non eletto democraticamente, a concederle la fiducia. ‘Lottare’, in questo caso, ha significato aprirsi alle diverse visioni politiche dei partiti, concedere terreno e impegnarsi in politiche progressiste, come il salario minimo europeo o lo European Green Deal.
Dunque, non stupisce che il risultato sia stato l’avvento di una presidenza ibrida, tendenzialmente più lontana dalla dottrina democristiana tradizionale. Molto criticata nel suo operato domestico (a torto o a ragione, qui non ci interessa), considerata come una tradizionale ed insipida esponente di un CDU a volte poco attuale, la Presidente VdL è stata in grado di reinventarsi, divenendo portatrice di una retorica maggiormente trasversale. L’ultimo discorso sullo stato dell’Unione, con l’appello in difesa delle comunità LGBTQI in particolare, ne è un’ulteriore conferma: «le zone che non hanno posto per le persone LGBTQI sono zone che non hanno posto per l’umanità e non hanno posto nella nostra Unione».