
L’8 settembre, il campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo, è stato completamente raso al suolo da un tragico incendio che ha lasciato 12mila persone senza un riparo. Appiccato, a quanto affermano le autorità, da alcuni migranti al fine di protestare contro la precarietà (accentuata da una lunga quarantena) in cui la vita nel campo imperversa, l’incendio ha riportato l’attenzione internazionale sulla questione migratoria e sulla sua (mala)gestione da parte dell’UE. Come segnale politico di risposta, il 23 settembre la Commissione Europea ha pubblicato, in anticipo rispetto a quanto pianificato, una proposta di riforma del patto sulla Migrazione e l’Asilo. Si parla e si esalta, nel programma, una nuova forma di Solidarietà Europea che sia maggiormente inclusiva dei diversi orientamenti nazionali.
Come rendere collaborativo, in materia migratoria, uno Stato come l’Ungheria, il cui governo ha modellato la propria identità a partire da un’ideologia anti-immigrazione e che, per definizione, si rifiuta di accettare rifugiati? In accordo con il nuovo programma una posizione solidale non richiede necessariamente questo: in caso di emergenza migratoria, uno Stato Membro dovrà scegliere se contribuire alla causa direttamente, accogliendo un certo numero di rifugiati, o indirettamente, accollandosi la ‘sponsorizzazione dei rimpatri’, ovverosia i costi di rientro di coloro la cui richiesta d’asilo venga respinta.
Accanto a questo principio solidal-intergovernativo, il programma propone due ulteriori interventi: l’approfondimento degli accordi con i paesi d’origine o di transito – per limitare, a monte, le partenze – e il rafforzamento di FRONTEX, l’agenzia Europea a controllo delle frontiere esterne – per rendere il rimpatrio veloce ed effettivo –. Una serie di principi, quelli esposti, fortemente disincantati, volti a risanare il Sistema Comune di Asilo Europeo: in media, delle 370mila richieste d’asilo rifiutate ogni anno, solamente un terzo si traduce in un’espulsione.
In altre parole: nell’eterno contrasto tra Ideale e Reale, la Commissione ha intrapreso una strada dichiaratamente realista. Con la conseguenza che, i valori di cui essa si è fatta carico, ne risultino depotenziati. A tal proposito, quanto è lecito parlare di Solidarietà Europea, se manca un’equa divisione delle responsabilità, delle azioni intraprese, dei costi e dei benefici? Quanto è solidale un programma di questo tipo? La questione, a differenza di quello che molti hanno suggerito, non è bianca o nera, ma infinitamente grigia: la proposta non soddisfa, ma è pragmaticamente ragionata; la Solidarietà è flebile e depotenziata, ma c’è; le criticità sono tante e forti, ma, a differenza delle proposte passate – ben più ambiziose e solidari – qui esiste un certo spazio di realizzabilità.

Una riprova di ciò sono stati i riscontri tendenzialmente positivi ottenuti dagli ‘addetti ai lavori’. Filippo Grandi, Alto Commissario dell’UNHCR, ha dichiarato: «I politici in Europa hanno distrutto la solidarietà. Pertanto, dobbiamo ricostruirla gradualmente e questo è un buon tentativo di fare questo». Incalzato in merito alla reazione, diametralmente opposta, di una società civile che ha (legittimamente) posto l’accento sulle forti criticità della proposta, ha aggiunto: «dobbiamo anche riconoscere che quattro o cinque anni di discussione non ci hanno portato da nessuna parte». Un’importante think tank come il Migration Policy Institute Europe ha definito la manovra come «un ultimo respiro, uno sforzo di realpolitik da parte dei leader Europei per impostare un piano che mantenga le 27 nazioni al tavolo». Una solidarietà flessibile e volta alla differenziazione delle responsabilità, piuttosto che alla loro armonizzazione. Cosa ha portato a un tale cambiamento di paradigma? Contestualizziamo.
Negli ultimi 5 anni, rivisitare le procedure di migrazione ha sempre significato riformare la Convenzione di Dublino. Il trattato norma il traffico di protezione internazionale all’interno del Sistema Comune di Asilo Europeo e determina chi sia lo Stato membro avente l’onere di valutare una richiesta d’asilo. La regola aurea, in linea generale, consiste nel considerare il paese ‘di primo ingresso’ del migrante come suo legittimo responsabile. Tuttavia, se sottoposta a una forte pressione (pari a quella raggiunta durante la crisi migratoria del 2015), la regola aurea produce un’occlusione di richieste, condensate in quegli Stati di confine geograficamente predisposti a divenire territori di primo ingresso.
L’enfasi degli ultimi anni su di una nuova forma di Solidarietà Europea è stata quindi strumentale a una riforma che eliminasse la regola aurea e istituisse delle quote obbligatorie di redistribuzione dei richiedenti asilo. L’idea alla base era che ‘solidarietà’ non potesse soltanto implicare quella ‘mutua fiducia’ evocata nel testo della Convenzione di Dublino (la quale, purtroppo, presuppone volontarietà e quindi possibilità di evasione dagli accordi), ma anche ‘mutua azione’ e ‘mutua responsabilità’. La solidarietà è scomoda, esigente e talvolta difficile da accettare; ragioni che ne giustificano l’istituzionalizzazione nei termini di un obbligo vincolante.
Nonostante ciò, ogni tentativo di modifica del Trattato si è scontrato con una totale chiusura da parte del Gruppo di Visegràd – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia –, più volte supportato da Austria e Danimarca (la sola a non avere sottoscritto l’accordo di Dublino). Dal 2017, quando una proposta di redistribuzione obbligatoria venne bloccata in sede di Consiglio Europeo nonostante la previa approvazione del Parlamento Europeo, il confronto si è arenato su di un terreno di incomunicabilità.

Il fallimento storico di una solidarietà eccessivamente ambiziosa è alla base del suo attuale depotenziamento. Condizione necessaria per accettare la nuova proposta è quindi concepirla come un primo passo di un processo in itinere e non come un punto di arrivo. Questo viene sottoscritto dallo stesso Grandi, il quale considera il patto come «un tentativo di muoversi da Dublino verso un sistema condiviso senza andare direttamente fino in fondo – ovvero, la ricollocazione obbligatoria al momento dell’arrivo».
La legittimità della proposta deriva solamente dall’ardua, talvolta ingiusta, necessità di venire a patti con la realtà. In ragione della stabilità e dell’unità interne, l’Unione ha deciso di sacrificare parte della propria intraprendenza etica, promuovendo il rafforzamento delle frontiere esterne e intensificando i rimpatri. L’Europa deve però essere consapevole di ciò che vuole diventare in futuro. A questo proposito, risuonano ancora nella testa, come fantasma di ciò che l’UE non dovrebbe mai essere e rappresentare, le parole pronunciate a marzo da Ursula von der Leyen: «ringrazio la Grecia per essere il nostro scudo Europeo».