
La già critica condizione dei migranti che si trovano oggi a percorrere la cosiddetta rotta balcanica è divenuta drammatica con il peggioramento delle condizioni metereologiche che ha accompagnato l’arrivo dell’anno nuovo. La situazione è tale che sia la Caritas italiana che l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) descrivono come suo risultato più probabile una “catastrofe umanitaria” alle porte dell’Unione Europea. La posizione dei migranti era precipitata a fine dicembre, quando il campo profughi di Lipa, al confine tra Bosnia e Croazia, è stato raso al suolo da un incendio. La conseguenza immediata della distruzione del campo, nella pratica una tendopoli inadatta a fornire riparo dalle temperature invernali, è che al momento migliaia di persone si trovano a sopravvivere nei boschi a pochi chilometri dalla frontiera croata.
Eppure questo scenario non è il classico fulmine a ciel sereno, ma il risultato prevedibile di una serie di scelte politiche che sono andate via via a peggiorare la situazione al confine Sud Orientale dell’UE. Quella balcanica è infatti una rotta “vecchia”: è stata attraversata per anni da decine di migliaia di persone che cercavano di raggiungere l’Unione. La massima pressione sulla rotta è stata registrata nel 2015, anno di quella che in Europa è stata chiamata “crisi dei migranti”, quando nel mese di novembre al confine macedone si registravano più di diecimila ingressi al giorno (fonte: https://www.progettoitacaonlus.it/la-rotta-balcanica/). L’aumento esponenziale di ingressi fu dovuto al peggiorare della guerra in Siria, alla decisione del governo turco di lasciar passare il flusso di migranti diretti verso l’Europa, nonché all’inazione dell’Unione stessa, incapace di reagire unitamente ed efficacemente nel garantire la sicurezza dei migranti nonché dei suoi stessi cittadini.

La conseguenza immediata di quella crisi, durante la quale in Europa si sono ricominciati a vedere fisicamente i muri di confine e si è accettato nei fatti che i diritti dei migranti non fossero neanche lontanamente garantiti, è stato il famigerato trattato Turchia-UE del Marzo 2016. L’accordo con Ankara si inseriva perfettamente nella strategia europea di “esternalizzazione” della gestione dei flussi migratori. Nella pratica, tra 2016 e 2018, l’UE ha versato nelle casse del governo di Erdogan l’assurda cifra di 6 miliardi di euro affinché i migranti potessero essere respinti dalla Grecia alla Turchia e lì bloccati (fonte: l’Espresso https://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/04/04/news/turchia-europa-segreti-accordo-rifugiati-1.320216). Una strategia quanto meno miope quella di Bruxelles, perseguita del resto anche nei confronti dei flussi provenienti dal Nord Africa ed in particolare dalla Libia, sostenendo qualunque autorità fosse pronta a fermare i migranti. Come era prevedibile però, nascondere la testa sotto la sabbia e riempire d’oro il governante di turno non ha fatto altro che ritardare l’esplodere del problema.
Infatti, il numero dei richiedenti asilo registrati al confine orientale è calato negli anni. I flussi si sono ridotti e spostati dall’Ungheria verso la Croazia, ma non si sono mai fermati. La logica conseguenza è stata la creazione ed il conseguente sovraffollamento degli hotspot (centri di raccolta teoricamente temporanei) in cui le condizioni di vita diventano ogni giorno più critiche. L’esempio più drammatico è la distruzione, anch’essa causata da un incendio causato dai migranti esasperati, del campo di Moria, che al momento del rogo ospitava più di 12.000 migranti su una capienza massima prevista di 3000. La rotta balcanica non si è mai davvero chiusa, ma è divenuta più lenta e pericolosa, segnata da enormi campi profughi come quello di Idomeni o quelli già citati di Moria e Lipa, in cui vanno a confluire sia i nuovi arrivi sia coloro che vengono respinti, spesso con metodi illegali e violenti, alle frontiere europee. Insomma, un vero e proprio percorso a tappe verso l’Europa, caratterizzato dal sadismo di venire riportati indietro lungo la stessa rotta nel momento in cui si viene fermati alla frontiera. Un itinerario dunque non lineare, non a caso tristemente ribattezzato game dai migranti che lo percorrono.
Dunque, a cinque anni dall’accordo UE-Turchia, la rotta balcanica rimane uno snodo centrale, per quanto “nascosto”, dei flussi migratori diretti in Europa. Nel periodo compreso tra gennaio e metà novembre 2020 il numero di migranti respinti alla frontiera italo-slovena è aumentato del 420% rispetto all’anno precedente (dati Altreconomia https://altreconomia.it/rotta-balcanica-nel-2020-record-di-respingimenti-dallitalia-verso-la-slovenia/). Tenendo conto che quello italiano è almeno il quarto confine raggiunto dai migranti lungo il percorso balcanico, questi numeri rendono l’idea dell’enorme flusso di persone che si trovano ammassate alle porte dell’Unione. Se a ciò aggiungiamo la completa inadeguatezza del sistema di hotspot creati lungo il percorso, è fin troppo evidente come la “catastrofe umanitaria” cui hanno fatto riferimento sempre più Ong in quest’ultimo mese, sia sempre più vicina.

Quella che si sta preparando nei Balcani non è dunque una crisi nuova né una crisi inaspettata. Cinque anni fa la pressione sul confine Sud Orientale europeo fu tamponata, ma non risolta, pagando il governo di Ankara affinché si occupasse del problema. La crisi sulla rotta balcanica certifica in primo luogo il fallimento della strategia europea di esternalizzazione dei confini, utile solo a guadagnare tempo, ma incapace di agire sulle cause delle migrazioni nonché sulle capacità di ricezione degli stati di destinazione. In secondo luogo dimostra come, soprattutto nel campo dell’immigrazione, i diritti umani siano un argomento che le istituzioni comunitarie hanno consciamente deciso di non difendere, rimanendo lettera morta nei trattati e nelle dichiarazioni ufficiali.
Insomma, dal 2015 ad oggi i morti e le deportazioni sulla rotta balcanica sono proseguiti e di fronte all’inazione di Bruxelles nel dotarsi di una strategia comune e rispettosa dei diritti dei migranti, la responsabilità della situazione attuale ricade gravemente sull’Unione e sui governi che la compongono. Di fronte alla grandezza del disastro umanitario cui stiamo assistendo, la solidarietà questa volta non potrà bastare. Una risposta a livello sovra statale sarà necessaria, ma dovrà essere organica e non l’ennesima “toppa”. Nel frattempo anche l’attuale governo italiano deve attivarsi per porre fine ai respingimenti forzati e rispettare integralmente l’art.10 della Costituzione ed il Trattato di Dublino. I riflettori della stampa e della politica hanno ricominciato ad accendersi sui Balcani, i governi sanno che dovranno rispondere dell’inumanità delle loro azioni. La speranza è che agiscano per evitare un’altra (l’ennesima) tragedia alle porte dell’ Europa, nonchè per non incrinare definitivamente la loro già scarsa credibilità riguardo al rispetto dei diritti umani.