A che pro René Char in tempi di ristrettezze? [prima parte]

Qualche appunto su René Char, sulla sua poesia di resistenza, sulle parole essenziali e sulle cose che passano, facilmente o no.

«A che pro i poeti in tempi di ristrettezze?», si chiedeva Hölderlin, ed è una domanda ineludibile al momento di prendere in mano un libro di poesie nella lenta fuoriuscita da qualche mese ai domiciliari a causa d’una pandemia che sembra rappresentare troppo bene il «dürftiger Zeit» – tempo povero, tempo d’indigenza – evocato dal poeta tedesco. Nella pratica: riordinare la libreria è cosa buona e giusta e fonte di salvezza, ma non dovrebbe contemplare né il leggere l’indice dei libri colpevolmente non letti né tantomeno il soffermarsi a spigolare tra le frasi segnate a matita di quelli già letti. Guardo il libro che ho in mano, è una brutta edizione scolastica di “Feuillets d’Hypnos”, raccolta dei brevi appunti che il poeta francese René Char ha composto quando combatteva come partigiano in Provenza. Dal taglio superiore emergono dei vecchi biglietti di treno usati come segnalibri. Di primo acchito potrei giustificare lo sfogliare queste pagine con il fatto che anche René scriveva in tempi d’angoscia, anche se ci vuole un niente per rendersi conto della stupidità del paragone, essendo il suo tempo di “détresse” ed il nostro al massimo di “désarroi”. Accanto al suo posto vuoto sul ripiano spuntano un paio di volumi dell’Achmatova – che unisce a poemi d’una dolcezza tanto semplice da essere disarmante, un ciclo per il figlio chiuso nelle carceri sovietiche – e di sicuro continuando a leggere i nomi difficilmente potrei trovare degli autori che non hanno vissuto, nell’esperienza personale o collettiva, dei “tempi poveri”, “tempi d’indigenza”. Si è punto a capo. «A che pro i poeti in tempi di ristrettezze?».  «A che pro – nella fattispecie – René Char in tempi di ristrettezze?». La copertina del volume riproduce un quadro di Georges de La Tour, “Il Prigioniero” (oggi rinominato “Giobbe deriso dalla moglie”), un dipinto che sembra asimmetrico, quasi squilibrato con la figura d’una donna con gonna bianca e camicia rossa che troneggia nel buio piegata verso un uomo seduto a petto nudo: un gioco di luci, gesti e sguardi che emergono con decisione dall’ombra e dal fondale scuro. Il prigioniero/Giobbe non sembra vedere il gesto della donna/moglie, il braccio è d’altronde allungato oltre la sua spalla, e non ha l’aria di chi capisca le parole: sembra vedere solo la luce d’una candela e gli occhi che la riflettono. L’autore del libro ne teneva una riproduzione nella stanza in cui lavorava con il nome di battaglia di “capitán Alexander” ed a questo dipinto fa riferimento in alcune sue composizioni: «le parole che cadono da questa terrestre figura d’angelo rosso sono delle parole essenziali, delle parole che portano immediatamente soccorso» [Foglio 178 di Feuillets d’Hypnos, ora FH]. Ecco, più della poesia in sé, è questo che serve per far fronte ad ogni «dürftiger Zeit»: “parole essenziali”, “parole che portano immediatamente soccorso”, ed è in questo campo che René Char è forse il più grande poeta del Novecento.

tratto da Giorgio Agamben, Autoritratto nello studio, Milano, Nottetempo, 2017

«Come fate a sentirmi? Parlo da così lontano…» [FH 88] si chiede, ed è in effetti vero: il ricordo di René sembrerebbe quasi a disagio nel rumoroso discorso contemporaneo, apparendo di soppiatto, quasi lasciando solo delle tracce. Capita di trovarlo nelle letture generaliste, l’ho conosciuto da una citazione di Flores D’Arcais in un numero di Micromega; può fare capolino in libreria, un paio d’anni fa in un angolo dell’Internazionale Hoepli appariva quasi imbarazzata una sua foto estiva con Albert Camus, copertina dell’edizione economica del loro scambio epistolare; lo si può incontrare in libri settoriali, come nell’”autoritratto” di Giorgio Agamben, nel quale si scopre che il capitano Alexander seguiva nel dopoguerra i seminari estivi che Heidegger teneva nel sud della Francia. Dalle foto con l’amico Camus sembra emergere un uomo comune ed accanto al viso acuto dell’autore de “Lo straniero” i tratti di Char emergono come scolpiti nel legno, la sigaretta tra le dita come un ramoscello secco. Questa corporeità quasi ingombrante emerge anche nelle fotografie di Agamben, nelle quali il nostro, in contrapposizione al basso filosofo di “Essere e tempo” ed allo smilzo autore di “Homo sacer”, sembra un gigante un po’ sgraziato. Doveva far paura col fucile al petto, quando combatteva una battaglia che era, certo, militare (i “fogli” 4 e 138 di Feuillets d’Hypnos andrebbero riletti ogni 25 aprile) ma anche e soprattutto morale, dovendo il poeta raccogliere la sfida d’incarnare «la resi-stenza d’un umanesimo cosciente dei suoi doveri» [FH introduzione] nel quale deve «fa[rsi] violenza per conservare, malgrado il [suo] umore, la [sua] voce d’inchiostro» [FH 194]. C’è quindi anzitutto la piena coscienza della difficile battaglia militare – ne fa drammaticamente paura l’esito, sia per il rischio della sconfitta militare, che per quello della sopravvivenza di quel fascismo che si sa non essere solo un sistema politico ma soprattutto una categoria del pensiero [FH 37] – ma dietro a tutto ciò Char traduce in versi il rischio per i resistenti di deviare dal «dritto cammino della condizione umana» [FH 123]: «saremo più parti simili a quei crateri dove i vulcani non vengono più e dove l’erba ingiallisce sullo stelo?» [FH 147], si chiede. È il terrore di seguire le orme del Colonnello Aureliano Buendìa – che, nella sua giusta lotta, sta “imputridendo vivo” – e l’amara consapevolezza di quelle cose che non passano e del fatto che «non si prepara il letto alle lacrime come se fossero un visitatore di passaggio» [FH 107].

René non scrive a fine di denuncia o memorialistico ed era anzi tentato di bruciare il quadernetto di poesie: se parla di politica lo fa per fissare delle riflessioni, né per ordinarle né tantomeno per imporle al lettore. La battaglia militare è giusta, e non potrebbe non esserlo, ma il vero rischio è quello di perdere la sua battaglia da poeta, quella di farsi «conservatore delle infinite facce del vivente» [FH 83]. Ciò che resta, che dev’essere difeso, è quindi la vita animale che prosegue, «sulla scorza tenera della notte» [FH 141], la vita ed i dubbi di coloro che gli stanno accanto, le riflessioni generali distillate in passi brevissimi, spesso di una manciata di parole, essenziali come suo solito. Si trovano al più alcune poesie “motivazionali”, che servono forse allo stesso René per passare le notti di guardia ed i momenti di lucidità, quella lucidità che «è la ferita più vicina al sole» [FH 169]. E così «Accumula, poi distribuisci. Sii la parte dello specchio dell’universo la più densa, la più utile e la meno appariscente» [FH  156]; «Tieni davanti agli altri ciò che hai promesso a te stesso. Qui è il tuo contratto» [FH 161]; «Il frutto è cieco. È l’albero che vede» [FH 165]; «Perché un’eredità sia realmente grande è necessario che la mano del defunto non si veda» [FH 166].

[…]

Immagine di copertina: Georges de La Tour – Giobbe deriso dalla moglie (1650 ca)

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