
È diventata così naturale la nostra realtà compressa tra le quattro mura di casa che spesso ci si accorge di non ricordare più come fosse la vita prima della pandemia. Non si ricordano più le ora tanto demonizzate uscite in compagnia, la socialità basilare dell’incontrarsi a scuola o a lavoro ma nemmeno i gesti più semplici come bersi un caffè al bar o vedersi in viso mentre si cammina per strada.
Ma se è un dato di fatto che questa nostra vita a-sociale viene agita pensando in termini di inevitabilità (c’è una pandemia, quindi ci si deve per forza comportare con una certa dose di buonsenso, non si può fare altrimenti), possiamo davvero affermare senza ombra di dubbio che così come le nostre azioni anche questo nostro modo di pensare sia l’unico possibile per affrontare la situazione in cui ci troviamo?
Se si guarda con lucidità al come è stata formulata la narrazione cui siamo stati esposti fin dall’inizio della diffusione del contagio, si può notare che il tam-tam continuo dei media e dei messaggi istituzionali ha restituito una lettura della situazione sanitaria come una guerra contro un nemico invisibile. A tal proposito si ricordino le parole dell’ormai ex presidente del consiglio Conte in un suo tweet del 17 marzo: «[…] tutti insieme per sconfiggere il nemico invisibile». Si è scelto, in altre parole, di passare dal presentare una situazione in modo realistico e per quanto possibile “neutro”, al distorcerla utilizzando una metafora in particolare, ovvero quella bellica.

Questa mossa mediatica, per quanto apparentemente finalizzata a nobili scopi quali la creazione di una linea di azione comune o il dare sicurezza alla popolazione spaventata, nasconde tuttavia una pericolosa insidia che sperimentiamo ancora oggi: generare una condizione di emergenza permanente. E si sa che in una condizione di emergenza non solo si accettano compromessi che in un frangente normale non ci si sognerebbe nemmeno di considerare, ma si attuano anche comportamenti dettati dall’istinto, ovvero da quella naturale tendenza all’autoconservazione che ci spinge all’agire, non per vivere, bensì per sopravvivere.
Si parla di uno stato di eccitazione che ha la sua ragione d’essere nel breve periodo della risposta immediata ad un pericolo, ma che se protratto nel tempo è capace di portare l’individuo ad un crollo fisico e mentale. Ansia, paura, paranoia, PTSD, attacchi di panico sono solo alcuni dei risvolti patologici, e quando questi si manifestano sono null’altro che la punta dell’iceberg, la cui massa è nascosta per la maggior parte sott’acqua.
Come per l’iceberg, anche nella dialettica quotidiana che utilizziamo (e che proporzionalmente subiamo) quasi senza accorgercene nel decodificare la nostra realtà risiedono le cause del malessere nostro e altrui.
Infatti, le parole hanno un incredibile potere creativo, tale per cui quando un organo istituzionale (e quindi si presume anche autorevole) trasmette il messaggio che ci si trova di fronte ad un nemico invisibile, la reazione del popolo che ascolta non può che essere quella di mettersi in armi e di prepararsi alla guerra.
Guerra, già, ma che guerra?
Una guerra che per forza di cose si rivela subito non convenzionale, perché diretta contro un nemico che non si vede e che può nascondersi ovunque, e che anzi potrebbe annidarsi sempre più vicino a noi in persone che reputiamo amiche, addirittura nei parenti.

Ci si accorge ben presto che entrando in guerra con questi presupposti ci si trova privi di qualsiasi sostegno, e a nulla serve cercare di stabilire un fronte definito, confini stabili e sicuri dai quali escludere delle categorie fisiche, visibili, ben identificabili che possano farci sentire sicuri. La linea immaginaria è fluida, e si stringe e dilata in modo imprevedibile, escludendo sempre più persone pericolose, “untrici”, fino a quando un giorno ci si accorge che la linea finisce appena al di fuori dai propri piedi, che il tampone stavolta lo stai facendo tu e che l’altro ammorbato lo vedi guardandoti nello specchio di casa.
Inoltre, in guerra viene istituita una catena di comando che presuppone che i cittadini di mutuo accordo rinuncino alla loro libertà di fare scelte e prendere decisioni, delegandola ad uno stato maggiore.
In questo modo i cittadini hanno il solo compito di obbedire, e i vertici hanno il solo compito di comandare: non c’è spazio per il dubbio, per il confronto critico, per il buonsenso: siamo in armi. Se è stata data una regola una ragione ci sarà, anche se non è dato saperlo nei dettagli, bensì con i toni propagandistici del “dobbiamo sconfiggere il nemico, dobbiamo vincere”.
Un quadro in cui i morti non sono individui, ma moltitudini votate al sacrificio inevitabile; numeri che in altri tempi farebbero gridare alla vergogna e allo scandalo sono venduti ed accettati in modo asettico, e quando il dolore colpisce il nucleo famigliare si soffre in solitudine piangendo un caro quasi fosse morto al fronte, senza il conforto di vedere e vegliare un corpo e soprattutto senza il conforto della comunità.
Morti necessarie così come gli operatori sanitari sono i nuovi eroi di propaganda, i fanti col pugnale tra i denti che stanno fermi al loro posto, senza paura, senza indietreggiare (pena la fucilazione mediatica per codardia!), individui svuotati e camuffati da simbolo di efficienza dei valori dello Stato e di servizio, individui che quindi devono necessariamente essere infallibili, perché se non lo fossero chi di questo simbolo si nutre automaticamente ne risulterebbe indebolito.
È ironicamente ciclico questo mandare gli italiani in guerra con le scarpe di cartone, ma per quanto ancora potremo reggere?
La metafora della vita come guerra totale ci logora, ci rende meno liberi, ci sovraccarica di un peso aggiuntivo dato dall’aspettativa e dalla paura, ci fa accettare le direttive senza porci domande e in definitiva ci chiude la bocca e il cuore.
