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Catastrofico». Così il Fondo Monetario Internazionale ha descritto ad inizio estate l’impatto della non ancora superata pandemia di Covid sull’economia mondiale. In termini percentuali significa una contrazione prevista del PIL a livello mondiale di quasi il 5%, che equivale grossomodo a 12.000 miliardi di dollari persi nell’anno 2020/2021. L’Italia -naturalmente- non è immune: Bankitalia ed FMI concordano nel prevedere un crollo del PIL compreso tra il 13% nel peggiore degli scenari, e l’8% nel migliore. Tale contrazione andrà a braccetto con la drastica riduzione dei consumi e dell’occupazione, in calo di percentuali analoghe a quelle del PIL. Colpiti saranno principalmente i lavori più precari e meno qualificati, con conseguente aumento delle diseguaglianze.
Queste previsioni, datate giugno/luglio 2020, si stanno confermando tristemente precise. I dati Istat evidenziano una riduzione nel numero degli occupati durante il secondo semestre di quest’anno pari a 841.000 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quasi un milione di posti di lavoro andato in fumo (dati Istat 2020). Per un paese come il nostro, che già deteneva i due poco invidiabili primati di paese europeo con il tasso di disoccupazione giovanile più alto (44% pre-Covid) nonché di più diseguale tra quelli più popolosi, questi dati si inseriscono dunque su un tessuto economico e sociale già profondamente provato e significano la potenziale apertura di una crisi peggiore di quella iniziata nel 2008 e ad oggi mai davvero superata.
Le prospettive non migliorano se pensiamo che questo quadro già tetro avrebbe potuto essere addirittura più fosco senza il blocco dei licenziamenti imposto dal governo e per ora prorogato fino al 16 novembre. D’altro canto, questa misura non fa altro che posporre una vera e propria mattanza di posti di lavoro, certificata dai dati Istat sulla scarsa liquidità delle imprese italiane e dalle parole del Presidente di Confindustria Bonomi, che già a luglio invocava lo stop al blocco dei licenziamenti per favorire la “ristrutturazione” delle aziende. Di fronte ad un tale scenario, le cui estreme conseguenze arrivano a minare la tenuta democratica dello Stato, ci si aspetterebbe un piano deciso del governo per controbattere alla nuova ondata di crisi economica. Analizzando quanto detto fin qui infatti, il tema del diritto al lavoro appare un nodo centrale da risolvere per il futuro del paese.

Invece, per quanto riguarda le risposte politiche, tutto tace. Dei grandi proclami del periodo di lockdown, in cui si assicurava l’adozione dei proverbiali estremi rimedi, oggi non vi è traccia nelle dichiarazioni del governo. I fondi europei per cui tanto si è combattuto e di cui tanto si scritto non hanno ancora una destinazione definita. I provvedimenti varati sono strettamente emergenziali, ma per l’Italia servirebbero programmi decisi, strutturali, di cui invece non c’è nemmeno l’ombra. Neppure le indicazioni europee sono servite a dare la scossa. Nelle linee guida per l’utilizzo del recovery fund, pubblicate a metà settembre dal governo italiano con il nome di “Piano nazionale di ripresa e resilienza – Next Generation Italia” vengono annunciati in modo molto generale una serie di obiettivi tra cui la rivoluzione verde, il miglioramento della situazione economica e degli indicatori di benessere, maggiori investimenti nella ricerca e nelle infrastrutture nonché incremento dell’efficienza e della competitività del settore economico. Scelte precise e organiche tuttavia non ce ne sono, ma il tempo stringe e l’UE ha già ribadito che attende i piani definiti entro metà ottobre, di modo che possano essere inseriti nella finanziaria per l’anno prossimo.
Oltre alla fumosità degli obiettivi ciò che si nota è la quasi totale mancanza del tema della riforma del mercato del lavoro, ad oggi evidentemente fallito, a cui viene dedicata una pagina delle circa settanta di cui si compongono le linee guida. Oltre all’assenza nei programmi politici il tema è completamente estraneo anche al dibattito politico e mediatico. Nulla ad esempio è stato detto sulla necessità per tutti gli stati membri di dotarsi di uno schema di reddito minimo -al momento assente in Italia- rimarcata in un discorso di inizio settembre anche dalla presidentessa della Commissione UE Von Der Leyen. Dei/ai giovani di 20, 30, 50 anni, rifiutati o scartati dal mondo del lavoro e costretti a stage non pagati o a lavori precari e poco tutelati, nel dibattito mainstream non si è praticamente mai parlato né ci si è mossi concretamente per affrontare il problema. Tuttavia, questo esercito di “invisibili” va ingrossandosi di giorno in giorno. Dopo anni di immobilismo politico e taglio dei diritti, l’impressione è che se non ci sarà un cambio di passo deciso per garantire i diritti costituzionali legati a lavoro e condizioni di vita, questa volta le conseguenze, dagli scenari più prevedibili a quelli più radicali, saranno tangibili.

Nonostante la difficoltà ad emergere, il confronto sulla necessità di ripensare il mercato del lavoro (ma non solo) potrebbe a breve trovare nuove aperture. Infatti, la necessità di formulare piani per investire i fondi europei dovrebbe implicare accese discussioni sull’opportunità di questa o di quella ipotesi. Data la scarsità di rappresentanza politica classica, sta a chi vive sulla propria pelle la crisi, a chi pensa al proprio futuro, a chi non si è ancora arreso al male che viene offerto come normale ai lavoratori, (s)battersi affinché la tematica del diritto ad un lavoro -e ad una vita- dignitosa si imponga seriamente sull’arena politica, superando la retorica del choosy troppo spesso usata per liquidare la questione. Sempre consci che rivoluzioni dall’alto non sono all’orizzonte e la stanchezza e la rabbia aumentano, ma che solo impegnandosi in prima persona si possono formulare ipotesi nuove che in tempi di crisi possono rivelarsi decisive. Come scrisse tempo fa il poeta tedesco Friedrich Hölderlin «lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva ».