Guardare in noi stessi mentre tutto intorno crolla

Che bene possiamo trarre dalla crisi? Camus, riemerso durante il Covid con La Peste, riporta l’attenzione sulle nostre ferite e sul loro rapporto con il mondo in cui viviamo.

Accade spesso che nei periodi più bui ci si senta come se si avesse smarrito la strada: si fa fatica a fare qualsiasi cosa e, se si potesse, ci si lascerebbe galleggiare in attesa che un’onda più alta o più forte delle altre ci tiri sotto con sé. In questi momenti non ci si accorge solo del disagio che viene da una situazione passeggera, ma emergono anche dolori passati, a volte da tanto tempo, conflitti mai sanati che si affacciano senza lasciare un attimo di tranquillità e che logorano dentro poco alla volta.

Tuttavia, non appena la situazione sanitaria ha buttato le persone dentro questo carosello di molteplici sofferenze, invece di assistere ad un rigetto per tutto quanto concerne le epidemie e i malanni, inaspettatamente ci si è trovati di fronte ad un aumento nelle vendite di libri, serie, film a tema pandemico, portando alcuni di questi, come Camus, a raggiungere risultati incredibili. Gallimard, casa editrice parigina che ha in catalogo La Peste, ha registrato per questo libro nel solo bimestre gennaio-febbraio 2020 un incremento del 40% rispetto alle vendite dell’intero 2019: milleottocento copie vendute contro quattrocento. 

Dal punto di vista squisitamente letterario può essere interessante lasciare che siano i libri stessi a dare conto di quanto vengano letti, cercando all’interno delle loro trame le domande opportune da porsi in questo periodo o le risposte giuste a domande che ci siamo posti da soli.

La Peste di Camus è un libro sicuramente denso e difficile sia per i numerosi rimandi (presenti praticamente in ogni pagina) ad un numero molto alto di situazioni e credenze, sia per il fatto che sintetizza in pochi personaggi diversi archetipi (il medico, il prete, il pazzo…), che giocano i loro ruoli senza mai scadere nella macchietta, tenendo fede al proposito esistenzialista (la corrente filosofica in cui si inserisce Camus) di non mostrare l’ideale, ma il reale in tutta la sua cinica brutalità: l’umanità in tutta la sua fragilità e la sua determinazione. Un libro che si costruisce su evidenti contrasti che si sanano solo perché sono i contrasti dell’essere umano e della vita, quella stessa vita per cui si cerca disperatamente un senso nel quotidiano, nell’amore e nell’ineluttabilità della morte.

Illustazione di Anna Maria Stefini

In questo solco tra tutti i passi degni di attenzione e di meditazione che si possono trovare ce n’è uno che potrebbe soddisfare i nostri propositi:

[…] diciamo che soffrivo della peste ben prima di conoscere questa città e questa epidemia. Il che significa che sono come tutti gli altri. Sennonché ci sono persone che non lo sanno, o che si trovano bene in questa condizione, e persone che lo sanno e che vorrebbero uscirne. […] quel che so è che ognuno deve fare il possibile per non essere più un appestato […] solo questo può alleviare gli uomini e, se non salvarli, almeno fare loro il meno male possibile e magari fare un po’ di bene.

Rieux e Tarrou decidono, alla fine del loro giro di visite ai malati, di salire sulla terrazza per godere dell’aria della sera e lì avviene la rivelazione: Tarrou sceglie di mostrarsi finalmente come amico a Rieux e di siglare questo momento dell’amicizia con una conversazione che lega la sua esperienza con la peste al fatto di avere assistito ad una condanna a morte ad opera del padre magistrato.

Da qui l’esperienza particolare viene estesa, universalizzata: come la peste era per Tarrou nient’altro che una eco di una giustizia ipocrita che prevedeva l’omicidio per punire l’omicidio, per tutta l’umanità (esemplificata nel microcosmo di Orano, dove l’epidemia dilaga) la peste diventa il pretesto dal quale potersi accorgere di una malattia ben peggiore, ovvero l’impossibilità di vivere senza uccidere: l’impossibilità di vivere (e quindi di risolvere i problemi) senza perpetuare o accettare la violenza e l’annientamento dell’altro, a prescindere che ciò venga fatto in modo inconsapevole o meno.

In questo quadro il palliativo che l’autore propone per bocca di Tarrou è il cercare di comportarsi in modo innaturale ovvero sforzarsi, così come ci si sforza di non essere contagiati dalla peste, di vivere senza nuocere agli altri, nella convinzione che non sarà certamente sufficiente a guarire ma forse a fare il meno male possibile e talvolta anche un po’ di bene. Insomma, con questo passo programmatico Camus sceglie la consapevolezza e rende il momento di crisi esteriore un pretesto per accorgersi di una crisi che in primo luogo è interiore.

È alla luce di questo particolare modo di vedere il mondo che ci si può chiedere: a noi che viviamo in un mondo in pandemia che bene può venire dal leggere Camus? Che risposte si maturano nella finzione letteraria della città di Orano per un mondo, il nostro, che appare veramente allo sbando?

Al netto delle analogie, forse il contributo più importante viene dal metodo che l’autore propone attraverso i suoi personaggi, il quale si compone di due punti chiave: l’attenzione costante e lo sforzo di risoluzione. In altre parole, è come se Camus suggerisse implicitamente al lettore di impiegare tempo nonostante l’affanno quotidiano per guardare dentro di sé, riconoscere il problema, che per lui è esistenziale, adoperandosi in qualche modo per stare bene e cercare di non fare del male. L’analisi interiore chiama ognuno di noi a riconoscere in sé stesso i dolori pregressi come Tarrou, e di conseguenza a riconoscerli nel mondo, cercando di sanarli con una certa dose di indulgenza e di buona volontà.

Loomis Dean, Lo scrittore francese Albert Camus mentre fuma una sigaretta sul balcone dell’ufficio della sua casa editrice, 1957/ The LIFE Picture Collection
Immagine di copertina: Illustazione di Anna Maria Stefini

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