Guerra e pace in Afghanistan, il “cimitero degli imperi”

Gli Stati Uniti stanno cercando disperatamente di ritirarsi con dignità dall’Afghanistan, il “cimitero degli imperi”. Ce la faranno? È tutto da vedere…

È di questi giorni la notizia che il governo USA sta facendo pressione sul governo afghano per trovare un accordo con i talebani. Aspetta un attimo, gli USA che vogliono trovare un accordo con i talebani?! Non è esattamente quello che ci si aspetterebbe, dopo vent’anni spesi a combattersi. Eppure, così è. Cerchiamo di fare chiarezza

Prima questione da risolvere: dove diavolo è l’Afghanistan? Beh, fortunatamente o meno per i suoi cittadini, l’Afghanistan si trova in una posizione strategica, all’incrocio tra quattro diverse aree geografiche: il Medio Oriente, l’Asia Centrale, l’Asia del Sud, e l’Asia dell’Est. Questa posizione lo ha reso un nodo cruciale nella Via della Seta, l’insieme di percorsi che per secoli ha connesso il mondo occidentale a quello orientale (sì, il buon Marco Polo è probabilmente passato di lì!). Allo stesso tempo, però, è proprio questa posizione che ha invitato vari imperi (dagli imperi persiani a Alessandro Magno, dai Mongoli all’impero Moghul indiano, dall’impero russo a quello britannico) a imporre il loro dominio sul territorio che oggi chiamiamo Afghanistan – spesso con scarso successo, tanto da far guadagnare al paese il titolo di “cimitero degli imperi”.

L’Afghanistan: un crocevia strategico.
Credits: WorldAtlas

Per diversi secoli, quindi, l’Afghanistan è un po’ come l’Italia prima dell’unificazione: un insieme di tanti regni, generalmente basati sul controllo delle città principali, perennemente in lotta – a volte tra di loro, a volte contro i vari imperi che cercano di imporsi. E se la nascita dell’Italia moderna arriva nel 1861, quella dell’Afghanistan moderno arriva poco dopo – nel 1893, quando i britannici, in ritirata dalle montagne afghane, decidono di creare uno stato cuscinetto tra i loro domini nel continente indiano e quelli dell’impero russo in Asia Centrale.

Purtroppo, però, la creazione di uno stato afghano non porta la pace nel paese. Lotte di successione e scontri tra diverse forze politiche continuano nei decenni, fino a far scivolare il paese nella guerra civile, condita da un’invasione sovietica che inizia nel 1979 e che durerà per dieci anni. Ed è proprio in questo periodo che nascono i famigerati mujaheddin (i “combattenti della jihad”), che – con il generoso supporto di Pakistan, USA, Cina, alcuni paesi europei e alcuni paesi Arabi – diventano il maggior fronte di resistenza contro i sovietici in Afghanistan. Tra questi combattenti c’è un giovane saudita chiamato Osama bin Laden, la cui importanza crescerà rapidamente negli anni a venire.

Il Presidente USA Reagan accoglie alla Casa Bianca un gruppo di mujaheddin che stanno combattendo contro l’Unione Sovietica in Afghanistan (1983).
Credits: Michael Evans

La ritirata delle truppe sovietiche nel 1989 e il collasso dell’Unione pochi anni dopo indebolisce il governo afghano, e nel 1992 una coalizione di mujaheddin prende il controllo del paese. Ma nemmeno così la situazione nel paese migliora, perché questa coalizione è fragile, e scontri tra varie milizie – spesso legate alle diverse etnie che popolano l’Afghanistan – imperversano su tutto il territorio. Ed è in questa situazione di caos generalizzato che, verso fine 1994, emergono i talebani (dall’arabo, “gli studenti”), un gruppo fondamentalista islamico guidato dal Mullah Omar, un ex-mujaheddin.

Nel giro di pochi anni, i talebani – supportati dal Pakistan – impongono il loro dominio su quasi tutto l’Afghanistan, disarmando la gran parte delle milizie locali. Il loro successo rende il paese più sicuro, ma la legge che impongono è brutale e attrae ripetute condanne (condite da sanzioni ONU) dalla comunità internazionale. Infine, nel 2001 arriva la goccia che fa traboccare il vaso: i talebani si rifiutano di consegnare il loro ospite Osama bin Laden, accusato di aver organizzato l’attentato dell’11 settembre, agli USA. Gli USA rispondono a tono e dichiarano guerra. Nel giro di due mesi, i talebani vengono cacciati da tutti i maggiori centri abitati, e la comunità internazionale supporta la creazione di un nuovo governo per il paese.

Mullah Mohammed Omar (sinistra) e Osama bin Laden (destra).
Credits: Long War Journal

I talebani, però, non ci stanno, e lanciano una ribellione. Diversi fattori giocano a loro favore. Prima di tutto, i loro combattenti possono contare su basi operative al di là del confine col Pakistan, dove trovano regolarmente rifugio. In aggiunta, i soldi derivanti dal controllo del mercato dell’oppio portano fondi nelle casse dei talebani, e l’impopolarità del nuovo governo afghano, appoggiato da truppe straniere, gioca sicuramente a favore del gruppo. Si crea quindi una situazione di stallo che dura per anni. Il numero di truppe USA e NATO nel paese sale e scende, i presidenti afghani cambiano, la percentuale di territorio controllato dai talebani varia, ma in fondo il risultato è sempre lo stesso: il governo non riesce a sconfiggere i talebani, e i talebani non riescono a sconfiggere il governo.

Dopo quasi due decadi di conflitto, il cambio di marcia che spiega la situazione attuale arriva nel dicembre 2018. Il regista è Donald Trump, il presidente USA che con più forza di tutti ha promesso di far ritornare a casa i soldati impegnati nelle “guerre infinite” in Medio Oriente. Per realizzare questa promessa, l’amministrazione Trump scavalca il governo afghano e apre al dialogo coi talebani, trovando finalmente un compromesso nel febbraio 2020. Da un lato, gli USA promettono di ritirare le proprie truppe dall’Afghanistan entro 14 mesi. In cambio, però, chiedono ai talebani due promesse. Prima di tutto, i talebani dovranno impedire a gruppi terroristici come al-Qaeda e l’ISIS di operare nel paese. In aggiunta, i ribelli dovranno impegnarsi a negoziare in buona fede un accordo con il governo afghano – fino a questo momento escluso dalle trattative.

Bene, oggi questo periodo di transizione è quasi scaduto, ma non è ancora chiaro cosa succederà il primo di maggio. Le negoziazioni tra il governo afghano e i talebani procedono molto lentamente – si può quasi dire che non procedano affatto. Gli USA, però, vogliono uscire dall’Afghanistan – lo volevano durante la presidenza di Trump, e lo vogliono durante la presidenza di Biden. Se le truppe USA se ne vanno troppo presto, però, il rischio è di lasciare il governo afghano indebolito, consentendo ai talebani di sfruttare questo vantaggio nei negoziati o – ancora peggio – sul campo di battaglia, consentendogli di prendere il potere a Kabul.

È in questo contesto che possiamo finalmente capire la scelta di Biden di fare pressione sul governo afghano per avere un accordo di pace il prima possibile. Il nuovo presidente USA vuole “la botte piena e la moglie ubriaca”: mettendo il turbo al processo di pace afghano, spera di poter ritirare le sue truppe con la coscienza pulita dopo che un accordo è già stato raggiunto. L’idea è buona? Sì, certo – ma pare anche parecchio difficile da realizzare, dicono gli esperti. È da mesi che i negoziati tra governo afghano e i talebani sono praticamente bloccati, e non sarà facile sbloccarli in così poco tempo. Insomma, Biden sta facendo una scommessa. Riusciranno gli USA a ritirarsi dignitosamente dal cimitero degli imperi? È ancora tutto da vedere.

Le opinioni espresse nell’articolo sono solamente quelle dell’autore, e non riflettono necessariamente quelle di Echo Raffiche o di istituzioni a cui l’autore è affiliato.
 
Immagine di copertina: La firma dell’accordo tra USA e talebani nel febbraio 2020 a Doha, Qatar.
Credits: Agence France Presse

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