
La scorsa primavera, con il moltiplicarsi delle violenze a danno di clero e fedeli, la Chiesa di Haiti aveva descritto la situazione nel paese come una «discesa agli inferi». Il Washington Post riportava la notizia dipingendo uno scenario ancor più cupo: preda di decine di bande armate, governata da «un autocrate inetto» e corrotto, piagata da innumerevoli disastri naturali, sfinita dalla pandemia. Haiti doveva andare alle urne questo autunno. Jovenel Moïse, l’autocrate di cui sopra, governava per decreto da gennaio 2020: niente elezioni legislative, niente parlamento. Secondo il quotidiano americano, il voto sarebbe stato l’unica via d’uscita, l’unico modo per scongiurare «la più totale anarchia».
Inutile dirlo, gli haitiani non voteranno nemmeno quest’anno. Moïse è morto assassinato lo scorso 7 luglio: due dozzine di uomini armati hanno fatto irruzione – quasi indisturbati – nella sua abitazione privata a Port-au-Prince. Poco più di un mese dopo, il 14 agosto, un terremoto di magnitudo 7.2 ha colpito la regione meridionale del paese, uccidendo 2.246 persone e ferendone altre 12.763. Quando la terra ha smesso di tremare, l’isola è stata investita da una tempesta tropicale: secondo le Nazioni Unite, decine di migliaia di persone hanno perso l’accesso alla propria fonte d’acqua potabile.

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E tra le macerie dell’ennesima catastrofe naturale, la memoria torna al gennaio del 2010, al terremoto che ha segnato il volto di Haiti davanti al resto del mondo. Più di 200.000 morti, su quel fazzoletto di terra nel Mar dei Caraibi. La stessa isola dove due secoli fa gli schiavi insorsero contro i loro padroni, proclamando – per la prima volta nella storia – l’abolizione della schiavitù. Haiti è nata nel solco della Rivoluzione francese, e dalla Francia ha dovuto – letteralmente – comprare la propria indipendenza. Un debito che il paese avrebbe pagato per più di un secolo, condannato a una cronica instabilità economica, accompagnata da ripetuti colpi di stato e ingerenze straniere. Non ultima, la quasi ventennale occupazione militare degli Stati Uniti (1915-34), seguita da una pressoché costante influenza sugli sviluppi politici a Port-au-Prince.
Influenza che non può che rivelarsi cruciale in un momento come questo, mentre le indagini sull’assassinio di Moïse puntano – tra gli altri – al primo ministro Ariel Henry, subentrato al defunto presidente e sostenuto anche dalla Casa Bianca. Pochi giorni prima che Henry venisse chiamato in causa dal procuratore incaricato delle indagini (ça va sans dire, già licenziato), il segretario di stato Anthony Blinken dimostrava “apprezzamento” verso gli sforzi del Primo Ministro nel sostenere il rimpatrio degli haitiani deportati – a migliaia – dal Texas a Port-au-Prince.
Molti di noi hanno visto, anche sui telegiornali italiani, le immagini della polizia di frontiera americana che nei pressi del confine messicano caricava – a cavallo – persone inermi. Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Migrazione (IOM), in poco più di dieci giorni gli Stati Uniti hanno rimpatriato circa 7,500 haitiani, molti dei quali non facevano ritorno da anni. Lasciato il paese per cercare lavoro in America Latina, in particolar modo in Cile o in Brasile, tanti si sono messi in viaggio verso nord, spinti soprattutto dalle conseguenze economiche della pandemia nei paesi ospitanti. Sempre secondo IOM, nei primi nove mesi dell’anno, 56.000 haitiani hanno scelto di attraversare la giungla del Darién Gap, che si estende tra la Colombia e Panama: quasi il doppio di quanti hanno percorso lo stesso tragitto nell’intero corso del 2020.

Credits: Joshua Lott/The Washington Post
Giustificate sulla base del controverso Titolo 42, le deportazioni ordinate da Washington sono state ricevute da cori di protesta da parte delle organizzazioni della società civile e denunciate dallo stesso inviato degli Stati Uniti ad Haiti, Daniel Foote. Definendo la decisione di Washington come “disumana”, il diplomatico ha presentato le sue dimissioni al segretario di stato, Anthony Blinken. Chiamato a riferire al Congresso, Foote ha ribadito la sua posizione: “Haiti è troppo pericolosa” per permettere i rimpatri.
Nel solo mese di settembre, i rapimenti per mano delle gang sono più che triplicati rispetto al dato di luglio: 117 vittime, che hanno portato il totale dei primi nove mesi dell’anno a 628. Sei volte quanto riportato nello stesso periodo del 2020. Cifre che valgono ad Haiti il primato mondiale del numero di rapimenti pro capite. Nella paese si contano più di 150 bande armate: le gang controllano interi quartieri della capitale, la Stato non esiste, chi governa è spesso tacito testimone – se non complice – della criminalità. Moïse stesso era da più parti accusato di avere legami con le gang. Ora le ombre ricadono invece sul suo primo ministro, chiamato a fornire spiegazioni su una telefonata che potrebbe collegarlo a uno dei sospettati nell’assassinio del presidente. Spiegazioni che si Henry si è rifiutato di fornire, restando saldamente al potere e annunciando il rinvio delle elezioni, a data da definirsi.
Il voto in autunno non ci sarà, la terra ha tremato ancora, il mondo promette nuovi aiuti, ma intanto rispedisce gli haitiani al mittente. Quando vieni rimpatriato sei sottoposto a un tampone, ricevi alcuni beni di prima necessità e del denaro. Poi non ti resta che tornare a casa. Giusto?