
Accade talvolta, dopo una bella serata, che l’unico ricordo rimasto, una volta rientrati a casa, sia la sensazione provata nelle ore precedenti. Non è ben chiaro cosa sia andato bene in questo intervallo di tempo e ricordare con esattezza volti, musica o conversazioni e, comunque, non sembra così importante al fine dello stato d’animo provato.
La controparte negativa è, forse, ancora più emblematica: sensazioni quali disagio e fastidio non si dimenticano facilmente, al punto da sostituire, talvolta completamente, ciò che si è vissuto con l’insieme delle emozioni provate. La caratteristica peculiare che rende magico tutto questo è che, per quanto lo si possa analizzare, scomporre e osservare tramite i ricordi, a prevalere sarà sempre qualcosa che non può essere tradotto in un’immagine mnemonica.
Questa è esattamente la chiara e familiare sensazione che ho avvertito nel momento in cui ho concluso la visione di High Fidelity e ora provo a spiegarmi meglio.

Alta fedeltà, questa la traduzione letterale del titolo per la versione italiana dell’opera, è una serie tv prodotta da ABC e distribuita in Italia esclusivamente dalla piattaforma Disney+, ma credo recuperabile anche in altri modi (leggere con occhiolino ammiccante annesso, ndr).
La trama è basata sull’omonimo film, uscito nel 2000, che a sua volta è la trasposizione cinematografica del libro scritto da Nick Hornby nel 1995, anch’esso omonimo, e tratta di una ragazza (nella versione originale un ragazzo, interpretato da John Cusack), Rob, di 35 anni, proprietaria di un negozio di dischi in vinile a New York.
Il titolo è in realtà un gioco di parole, perché si riferisce sì all’alta qualità dei supporti musicali venduti, ma soprattutto alla tematica amorosa di fondo. La sinossi è tanto semplice quanto esprimibile in poche parole: Rob, la protagonista, tormentata da molteplici delusioni relazionali, decide di ricontattare i propri ex fidanzati, per cercare di capire quale sia stato il fattore scatenante la relativa rottura. Sarò onesto: l’argomento amoroso dovrebbe essere in primo piano nella fruizione dell’opera ma, per quanto mi riguarda, nella serie in questione, non lo è.
Rob accompagna lo spettatore nel corso di 10 puntate alla scoperta del proprio mondo, fatto di relazioni finite male, amicizie spesso in bilico ed eccessi di varia natura; ciò che traspare più di ogni altra cosa, a mio avviso, è tuttavia l’amore vero, quasi ossessivo, che hanno i protagonisti per la musica.

Nel corso degli episodi vengono citati aneddoti reali riguardo ai migliori album della storia, le difficoltà degli artisti emergenti a trovare la propria strada, l’importanza di creare una playlist equilibrata e la precarietà del mercato musicale attuale, il tutto camuffato da un contorno di una serie di peripezie amorose della protagonista.
Un’altra grande differenza che si pone a mio avviso tra il film e la serie tv, in favore della seconda, è la credibilità degli attori.
Non si può di certo imputare a John Cusack la colpa di essere un attore hollywoodiano e non una famigerata rockstar, ma se si considera che ad interpretare Rob nella serie è Zoë Kravitz, il tutto assume un altro livello di significato.
Zoë Kravitz, per i pochi che non la conoscessero, è una giovane donna dai molteplici talenti, attrice, cantante e performer; riassumendo, si diletta con successo in tutto ciò che le interessa in campo artistico. È figlia dell’attrice Lisa Bonet e della leggenda del rock Lenny Kravitz, ed entrambi, a suo dire, hanno avuto forte impatto nella sua educazione artistica.

L’ultimo grande tassello, che porta a mio parere la serie verso una consacrazione quanto l’omonimo film, è la componente estetica. A rendere possibile un’ottima realizzazione troviamo cinque ingredienti principali: la città di New York, il quartiere di Brooklyn nello specifico, l’incredibile colonna sonora, l’universo analogico-musicale, i concerti dal vivo (ma te li ricordi i concerti?) e lo stile naturale della protagonista.
Quest’ultimo può in un primo momento apparire come qualcosa di scontato, ma non lo è affatto. La perfezione della scelta di inserire Zoë Kravitz nel cast non riguarda soltanto il suo passato artistico, ma anche e forse soprattutto la sincronia tra l’interprete e il personaggio: Rob sembra spesso coesistere con la sua controparte reale. Dai Trench di pelle, all’abbigliamento ’90s, passando per l’attitudine e pure l’acconciatura, sembra di assistere ad un’ipotetica seconda vita dell’attrice.
A dimostrazione di questo fatto, spesso e volentieri Zoë utilizza capi d’abbigliamento propri sul set.

È doveroso ora concludere con un disclaimer necessario, seguito da una vera e propria chicca per appassionati. Consiglio High Fidelity principalmente a tutte le persone che, a modo proprio, apprezzano estetica e mood pre ’00s, e che si trovano in balìa della tanto amata e odiata corrente oceanica che è la vita tra i venti e i trent’anni, dove l’unica certezza è il flusso della vita che accade, senza alcuna concreta possibilità di vera razionalizzazione della stessa. Chicca finale per gestire al meglio la visione: uscite dal 2010 (a differenza del sottoscritto) e smettetela di impazzire con Shazam puntato davanti al televisore tutta la notte, la Playlist completa si trova su Spotify, e si, è un capolavoro.