
Si narra che il Jazz sia nato da una contaminazione tra generi musicali preesistenti.
Si racconta anche che questo universo culturale, erede di mondi precedentemente a sé stanti, come il Blues, il Soul, e le Work Song, sia nato dall’incontro di persone afroamericane che, durante la terribile segregazione razziale di inizio novecento, hanno coniato, più o meno volontariamente, questo nuovo ecosistema sonoro.
L’accostamento di culture differenti, appartenenti a condizioni sociali subalterne, ha permesso la contaminazione tra stili differenti: da una parte persone con un’educazione musicale accademica, dall’altra i cosiddetti autodidatti “Bluesman”.
Nella seconda metà del novecento, più precisamente verso la fine degli anni ’70, sempre negli Stati Uniti, si diffonde un nuovo movimento culturale spinto da forti sentimenti di protesta, chiamato Hip Hop.
I protagonisti sembrano i discendenti diretti dei padri fondatori della Black Music e infatti, sebbene le dinamiche non siano perfettamente sovrapponibili, sono molto simili. Vedono la popolazione afroamericana ancora una volta protagonista e il messaggio rimane quello di una società disfunzionale, che divide una popolazione non emancipata e ancorata a tremendi stereotipi che si mantengono ancora oggi.
Verso la fine degli anni ’80, gli acclamati musicisti Jazz, sempre più presenti in situazioni elitarie, fra locali raffinati e cerimonie altolocate, trovano terreno comune con i nuovi arrivati, che, armati di giradischi, microfoni e boombox, danno forma a quella che, per quanto mi riguarda, è una delle contaminazioni più azzeccate e improbabili degli ultimi anni: il Jazz Hop.
Nato grazie ad album come “Doo-Bop” di Miles Davis, “Jazzmatazz” di Guru o “Buhloone Mind State” di De La Soul, il Jazz Hop non è altro che l’attitudine rap, intesa come modalità di scrittura e di performance vocale, portata su basi Jazz, o che perlomeno contengono suoi elementi distintivi, come gli incastri armonici peculiari.
Negli ultimi tempi tutto ciò non è andato perduto e l’importanza di unire culture musicali differenti viene sottolineato anche in manifestazioni di altissimo profilo, come ad esempio il Kennedy Center Honors 2013, premiazione statunitense dal taglio internazionale, dove vengono premiati gli artisti che hanno apportato un notevole contributo all’arte e alla cultura. In questa occasione, vediamo musicisti Jazz leggendari, del calibro di Marcus Miller, suonare a fianco di un elegante Snoop Dogg, reinterpretando un classico del pianista Herbie Hancock, “Cantaloupe Island”.

Più recentemente ancora, ci sono ulteriori casi illustri che portano alta la bandiera di questa contaminazione, come l’uscita del fortunatissimo album “To Pimp a Butterfly” di Kendrick Lamar, ma non solo. Numerosi sono oggi gli artisti indipendenti che stanno volgendo il proprio interesse verso questo mondo e questo mi ha permesso di scoprire uno dei giovani artisti più interessanti di questo panorama: Vritra.
La storia di questo musicista americano penso sia calzante non solo per quanto riguarda il Jazz Hop come genere, ma proprio in riferimento a tutto il movimento, dalla sua nascita fino alla sua affermazione.
Pyramid Vritra, pseudonimo di Hal Williams, nasce a Baton Rouge, Louisiana, nel 1991.
Il primo approccio con la musica avviene con la partecipazione come spettatore durante le esibizioni dei cori gospel della madre che registra grazie ad un lettore cassette regalatogli dal padre quando il giovane artista compie dieci anni.
In seguito la musica, divenuta vera e propria esigenza, lo porta a spostarsi nella grande Los Angeles per inseguire il suo sogno. Formerà qui un collettivo con altri rapper della città, chiamato Odd Future, che ottiene una discreta fama nell’ambiente e dal quale deciderà poi di emanciparsi, scegliendo la strada solista.
É proprio qui che le strade del Jazz hop e di Vritra si incontrano, con l’uscita del suo ultimo album, “Sonar”, dove tracce classicamente Hip Hop si fondono con la tradizione del genere d’improvvisazione più famoso al mondo.
Lo stile di questo lavoro è sperimentale: ognuna delle quindici tracce presenti nel disco appare al contempo legata e slegata dalle altre.
L’unione tra gli stili che appassionano Hal raggiunge qui il proprio picco, passando dalla tradizione alla nuova scuola, restando fedele solo a sé stesso.

Questo ultimo lavoro, che l’artista descrive come “semplice attitudine” condizionata da un periodo di “overthinking”, mostra tutte le potenzialità di questa giovane promessa.
Nella storia di Vritra vi è la condensazione di tutto il processo raccontato fino ad ora, la partenza da una piccola cittadina, la formazione di un collettivo rappresentato da forze eterogenee che coesistono fino a quando una non si emancipa, trovando nella sperimentazione la propria natura.