Il volto di un uomo, Mario Paciolla, e sullo sfondo la carta geografica della Colombia

La Colombia, a un anno dalla morte di Mario Paciolla

San Vicente del Caguán – Colombia

Latitudine: 02° 07’ 00’’ Nord

Il 15 luglio 2020, Mario Paciolla veniva ritrovato senza vita nel suo appartamento, a San Vicente del Caguán, nella Colombia meridionale, a soli due gradi di latitudine dall’equatore, a quasi diecimila chilometri dalla sua città. A Napoli sarebbe tornato presto, era riuscito a trovare un volo che lo riportasse finalmente a casa, lontano dalla Colombia, lontano dal suo lavoro nelle Nazioni Unite.

Mario su quell’aereo non è mai salito. Lo staff legale delle Nazioni Unite ha contattato la famiglia, la polizia colombiana parlava di suicidio: l’hanno trovato impiccato, con ferite da taglio sul corpo. Sin da subito genitori e amici hanno rifiutato l’ipotesi avanzata delle autorità locali. In un’intervista rilasciata a Repubblica, la madre ha raccontato le telefonate ricevute: «mio figlio era terrorizzato: negli ultimi sei giorni non faceva che mostrare la sua preoccupazione e inquietudine per qualcosa che aveva visto, capito, intuito». Mario diceva di sentirsi «sporco», aveva bisogno di tornare «a bagnarsi nelle acque di Napoli».

Il suo contratto scadeva il 20 agosto, aveva deciso di anticipare la partenza, aveva già detto ai genitori cosa avrebbe voluto trovare nel frigorifero al suo ritorno, prospettando le due settimane di quarantena che lo avrebbero aspettato una volta atterrato a Napoli.

Nei giorni successivi al ritrovamento del corpo, le autorità italiane ed europee hanno espresso la ferma volontà di fare chiarezza sulla vicenda. Nel frattempo, dalla Colombia sono emersi nuovi elementi: il 16 luglio, membri del personale ONU hanno pulito a fondo l’appartamento di Mario e raccolto tutti i suoi effetti personali. Il 4 agosto, la Fiscalía General de la Nación ha aperto un’indagine sui quattro agenti della polizia che avrebbero dovuto impedire quanto accaduto ed evitare quindi il possibile inquinamento delle prove.

A coordinare l’intervento, Christian Leonardo Thompson Garzón, ex militare dell’esercito colombiano e referente per la sicurezza della missione ONU a San Vicente. Secondo la ricostruzione della giornalista colombiana Claudia Julieta Duque, lo stesso Thompson sarebbe stato contattato telefonicamente da Mario Paciolla solo poche ore prima della sua morte, avvenuta – secondo quanto stabilito dalla prima autopsia – intorno alle due del mattino. Nuovi interrogativi, ma nessuna risposta, tantomeno dal quartier generale delle Nazioni Unite, che si limiteranno a dichiararsi aperte a una piena collaborazione con gli inquirenti, in Colombia come in Italia.

A scartare l’ipotesi del suicidio è stata proprio la Procura di Roma: secondo il medico legale italiano, Mario era già morto quando il cappio gli si è stretto al collo. Le indagini proseguono ancora, sotto assoluto riserbo, e sembrano essere a buon punto, dicono i genitori. Dalla Colombia invece nessuna novità, nessuna spiegazione da parte delle Nazioni Unite, nemmeno in forma privata.

Due uomini si stringono la mano: sono il presidente colombiano Juan Manuel Santos e il capo delle FARC, Rodrigo Londono. Sullo sfondo, persone applaudono.
L’allora presidente Juan Manuel Santos e il leader delle FARC, Rodrigo Londono, noto come Timochenko, si stringono la mano durante la cerimonia per la firma dell’accordo di pace, nel novembre 2016.

Mario lavorava a San Vicente per conto della missione ONU incaricata della verifica dell’accordo di pace tra il governo colombiano e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC). Siglato nel 2016, l’accordo doveva mettere fine a un conflitto durato più di mezzo secolo: alle Nazioni Unite, il compito di monitorare la sua implementazione e, più in particolare, il reinserimento degli ex combattenti delle FARC nella vita politica, economica e sociale del paese. A San Vicente, che fu roccaforte della guerriglia, Mario si occupava proprio di questo.

Dopo cinque anni dalla firma dell’accordo, le speranze di pace sembrano sgretolarsi davanti ai numeri delle violenze che ancora inghiottono gran parte del paese, soprattutto le zone più remote, le province rurali, le aree di coltivazione e transito della coca. Dal 2016, più di duecento ex guerriglieri delle FARC – che avevano scelto di deporre le armi e reinserirsi nella società colombiana – sono stati assassinati in omicidi mirati. Altri sono tornati nella guerriglia, creando nuovi gruppi o unendosi alle fazioni dissidenti che hanno rifiutato l’accordo con il governo. Interrotte anche le trattative di pace con i guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN), che continuano a scontrarsi con gli eredi dei gruppi paramilitari di destra formalmente smobilitati a partire dal 2003. Una “nuova generazione” strutturata in formazioni più piccole, che si sono fatte spazio nelle reti criminali del narcotraffico.

Nel 2007, la smobilitazione delle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC) aveva portato alla luce l’entità della collusione tra i gruppi paramilitari di destra, le forze armate regolari e i vertici dello Stato. Nello stesso anno, la multinazionale americana Chiquita ammetterà di aver finanziato i paramilitari della AUC per assicurare la protezione delle proprie piantagioni in Colombia.

Sempre nei primi anni duemila, mentre il governo di Alvaro Uribe si vantava dei propri successi nella smobilitazione dell’AUC, le forze armate colombiane portavano avanti una sistematica serie di esecuzioni extragiudiziali. Spinti dai propri superiori a ottenere risultati migliori nella lotta alla guerriglia, i soldati colombiani uccidevano civili innocenti, piazzavano armi sui loro cadaveri e aggiungevano un altro tassello alla conta dei guerriglieri caduti in combattimento. Lo scandalo dei “falsi positivi” sembra aver coinvolto più di seimila vittime civili.

Più di recente, l’esercito colombiano è finito di nuovo sotto accusa per il bombardamento condotto contro un gruppo dissidente delle FARC, durante il quale dodici minori sarebbero rimasti uccisi. Su un episodio simile, risalente all’estate 2019, aveva indagato anche la Missione ONU di cui Mario Paciolla faceva parte. Una vicenda costata le dimissioni all’allora Ministro della Difesa, Guillermo Botero, destinatario di un voto di sfiducia alimentato dalle accuse del senatore dell’opposizione Roy Barreras. Quest’ultimo, secondo quanto riportato da un’inchiesta di El Espectador, sarebbe entrato in possesso di alcuni estratti del rapporto a cui Mario aveva collaborato, fatti circolare per volontà di uno dei suoi superiori a San Vicente. Una circostanza che Barreras nega e su cui le Nazioni Unite non hanno rilasciato dichiarazioni, ma che ha proiettato nuove ombre sulla morte di Mario.

Una folla di persone viste di spalle, bandiere colombiane e striscioni, sullo sfondo i grattacieli di Bogotà.
Foto delle proteste a Bogotà.
Credits: Ricardo Arce /Unsplash

A un anno da quella notte di luglio, la Colombia è ancora preda della violenza, spezzata dalla pandemia e attraversata da un’ondata di proteste contro il governo del conservatore Iván Duque. Salito al potere nel 2018, il “delfino di Uribe” – così ne parlò Mario in un articolo pubblicato sotto lo pseudonimo di Astolfo Bergman (lo trovate su Limes) – ha progressivamente smantellato l’accordo di pace siglato con le FARC dal suo predecessore. Tradita, in particolar modo, la promessa di una riforma agraria, che rappresenta non solo il cuore delle rivendicazioni avanzate dalla guerriglia, ma un nodo cruciale per il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione residente nelle aree rurali.

Le proteste della scorsa primavera sono esplose dopo mesi di lockdown successivi, nel contesto di una crisi economica sempre più grave, infiammate dall’annuncio di una riforma fiscale che avrebbe piegato ancor di più le classi popolari. La violenza della repressione governativa ha portato a un bilancio di almeno quaranta morti e 1.832 casi di detenzione arbitraria in soli tre mesi.

Numeri che vanno a sommarsi ai registri che Indepaz aggiorna su base quotidiana, cifre che ci restituiscono l’immagine di un Paese dove non è concesso credere in un futuro migliore. Da gennaio di quest’anno ad oggi, sono 86 i leader comunitari e difensori dei diritti umani assassinati. L’anno scorso, Frontline Defenders ne aveva documentati 177: oltre la metà del totale degli attivisti uccisi a livello globale si trovava in Colombia. Leader sindacali, promotori dei diritti delle comunità contadine e delle popolazioni indigene, della protezione dell’ambiente e della costruzione della pace. Decine, centinaia di persone, che hanno rifiutato di arrendersi a un sistema ingiusto, corrotto e violento.

Per chi ha il coraggio di sognare in un mondo più giusto.

Per Michele, ucciso in Messico solo pochi giorni fa.

Per Mario, perché non ci stancheremo mai di chiedere giustizia.

Qui trovate la petizione lanciata su Change.org.

Immagine di copertina: Illustrazione di Paolo Zangrandi

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