carro armato dell’esercito ucraino, sullo sfondo la carta del Donbass.

La crisi umanitaria del Donbass si consuma all’ombra della guerra fredda

Donetsk – Ucraina Orientale

Latitudine: 48° 1’ 22’’ Nord

La guerra del Donbass è tornata in prima pagina: da mesi aumentano le tensioni da un lato all’altro della cortina che corre per 420 chilometri attraverso la regione. Il 30 marzo, alcuni scontri tra i separatisti del Donetsk e i soldati dell’esercito ucraino hanno portato Kiev e Mosca ad accusarsi reciprocamente per la recente escalation di violenza. A detta dell’Ucraina, il Cremlino avrebbe dispiegato 80.000 nuovi soldati ai suoi confini occidentali. Dal canto suo, la Russia ha dichiarato di aver agito in risposta alle provocazioni della NATO, il cui Segretario Generale ha accusato a sua volta Mosca di aver condotto un’operazione “ingiustificata, inesplicabile ed estremamente preoccupante”. Mentre il presidente ucraino Zelensky rinnovava la sua richiesta di adesione all’Alleanza Atlantica, Washington notificava alla Turchia il prossimo ingresso di due navi americane nel Mar Nero.

Culminato – ad oggi – con l’arresto per spionaggio del console ucraino a San Pietroburgo, il botta e risposta tra il Cremlino e Bruxelles – dove siede il quartier generale della NATO – ha saputo risvegliare gli umori di un passato sopito, facendosi spazio nei media di tutta Europa. Ma in tutto questo scalpore, la guerra del Donbass sembra quasi uscire dalla realtà. L’immaginario mediatico è catturato dalla partita giocata da diplomatici, ministri e capi di stato. La telefonata del presidente americano al Cremlino, come in uno dei tanti film sulla guerra fredda, le truppe russe e le navi da guerra che si dispiegano attorno a un fazzoletto di terra come piccoli carri armati colorati durante una partita di Risiko. Eppure, per i civili del Donbass, le conseguenze del conflitto sono reali e disastrose: nell’Ucraina orientale si consuma da sette anni una crisi umanitaria che oggi investe più di tre milioni di persone.

soldati e civili durante un attacco, durante la guerra del Donbass, Ucraina.
Illustrazione di Paolo Zangrandi

La guerra nella regione ha avuto inizio nella primavera del 2014: pochi mesi prima, le proteste di Piazza Maidan avevano costretto l’allora Presidente, Victor Januković, a lasciare il potere riparando in Russia. La vicina Crimea era stata occupata da forze filorusse e formalmente annessa all’ingombrante vicino orientale in seguito a un referendum – dal risultato a dir poco bulgaro – considerato illegittimo da gran parte della comunità internazionale. Davanti al coro di proteste levatosi ad Occidente, il Cremlino ha rivendicato il proprio diritto ad agire in difesa della minoranza russofona dell’Ucraina orientale, le cui richieste di autonomia – a detta di Mosca – erano state lungamente ignorate dal governo centrale. A loro volta, i separatisti pro-russi degli oblast di Donetsk e Luhansk si sono affrettati a proclamare l’indipendenza dei rispettivi territori, dando il via allo scontro con le truppe di Kiev.

Sette anni di guerra hanno portato alla morte di 3.367 civili e al ferimento di altri 7.000, a cui si aggiungono quasi un milione e mezzo di sfollati. Tra i separatisti e il governo centrale sono stati siglati almeno trenta accordi di cessate il fuoco, l’ultimo in ordine di tempo risale al 27 luglio scorso. Ma la flebile prospettiva di pace scaturita dall’accordo si è presto infranta, ancora una volta, davanti alle violazioni commesse da entrambe le parti. Ai confini di un’Europa piegata dalla pandemia, la crisi umanitaria del Donbass non ha fatto che aggravarsi, nel silenzio quasi totale dei media internazionali.

Gli oblast di Donetsk e Luhansk sono attraversati da una linea di separazione lunga 427 chilometri: la contact line divide l’area sottoposta all’autorità centrale dai territori occupati dai gruppi separatisti. Molti servizi essenziali sono disponibili soltanto nelle zone sotto controllo governativo, ma i punti d’accesso per i civili sono soltanto cinque, lungo una cortina di centinaia di chilometri. Prima che il contagio da COVID-19 raggiungesse l’Ucraina orientale, attraverso la contact line si contavano in media 1,2 milioni di passaggi ogni mese. Indetta per ragioni sanitarie a marzo dello scorso anno, la chiusura dei punti d’accesso ha fatto precipitare questo numero a poche migliaia, impedendo agli abitanti delle due zone di ricongiungersi alle proprie famiglie o ricevere gli aiuti necessari.

una donna tra le macerie della guerra nel Donbass, Ucraina.
Illustrazione di Paolo Zangrandi

Secondo le Nazioni Unite, le restrizioni legate alla pandemia hanno portato più di 300.000 anziani a dover sopravvivere per mesi senza poter ricevere la loro pensione, che può essere ritirata solo nelle banche situate sotto il controllo di Kiev. Nell’Ucraina orientale, più di un milione di anziani ha bisogno di aiuti umanitari: un dato che porta ad annoverare la situazione del Donbass tra le crisi umanitarie più “vecchie” del pianeta. Sfortunatamente, questo non è il suo unico primato. L’Ucraina è quinta al mondo per il numero di vittime provocate da mine e residuati bellici esplosivi (ERW), terza per il numero di incidenti causati da mine anticarro. Dal 2014 ad oggi, più di 2.000 persone sono rimaste ferite o uccise, 63 solo lo scorso anno. Ed è proprio ai due lati della contact line che si concentra il maggior numero di ordigni, quasi si trattasse di un altro record.

Ma a dispetto di tutto questo, da ormai cinque anni l’intervento umanitario nel Donbass deve fare i conti con finanziamenti di gran lunga inferiori a quanto necessario per far fronte all’emergenza. Nel 2020, le Nazioni Unite hanno raccolto meno di un terzo di quanto avevano richiesto appellandosi alla comunità internazionale. Non solo – e forse proprio a causa di questo – quella dell’Ucraina orientale è una delle crisi umanitarie meno documentate al mondo. E anche oggi che lo sguardo dei media è puntato sulle truppe ammassate ai confini ucraini, nessuno sembra badare alla sorte dei civili del Donbass

Immagine di copertina: Illustrazione di Paolo Zangrandi

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