
Può capitare di identificare la storia dell’Arte con le immagini usate per raccontarla, dimenticando che queste sono state create e commentate da persone in carne e ossa. Accade anche che queste persone siano ricordate come appaiono nei propri ritratti: rigidi, impeccabili contenitori di genio, impassibili alle emozioni.
Eppure, anche loro erano esseri umani! Per esempio, Voltaire sicuramente sudava d’estate e rabbrividiva d’inverno; e Richard Wagner, quando picchiava il mignolo contro il comodino, di certo soffriva; inoltre, senza dubbio Anna Bolena si è morsa la lingua almeno una volta nella sua vita; e così via. Ci avevate mai pensato? Ci penserete, quando guarderete il prossimo ritratto solenne?
Ecco, in quanto umani, i cosiddetti “grandi personaggi che hanno fatto la storia” sapevano anche essere dei burloni. Come quella volta in cui un famoso critico tedesco fu preso per i fondelli da un suo amico pittore…
Era circa la metà del Settecento e in Europa andava di gran moda quel movimento che oggi definiamo Neoclassicismo. In soldoni, è caratterizzato dal recupero delle forme classiche – quelle delle statue e dei templi dell’Antichità, per intenderci – e dalla ricerca di una “perfezione” fatta di simmetria e di razionalità.
Un esempio su tutti, guardato come punto di riferimento per bellezza e perfezione, era il gruppo scultoreo greco di Laocoonte e i suoi figli, ora conservato presso i Musei Vaticani[1]. Ciò che si apprezzava di quest’opera era la simmetria nella composizione, l’armonia nella forma dei corpi, ma soprattutto la “sublimazione” delle emozioni umane; per dirla con l’amico Winckelmann, di cui parleremo tra poco:
[…] l’espressione delle figure greche, per quanto agitata da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. […] Laocoonte soffre: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo poter sopportare il dolore come quest’uomo sublime lo sopporta[2].

I protagonisti della nostra storia rispondono a due tra i più illustri nomi del periodo (e qui vi concedo uno sbadiglio): Johann Joachim Winckelmann e Anton Raphael Mengs. Archeologo e studioso il primo, pittore il secondo, entrambi grandi followers dell’estetica neoclassica e – per convergenza di vedute – amici.
A dire il vero, Winckelmann non è stato solo un seguace del Neoclassicismo, ma anche un teorico. Le sue opere (ad esempio Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e della scultura del 1755 e Storia dell’Arte nell’Antichità del 1764) illustrano le caratteristiche dello stile neoclassico e i motivi per cui l’Arte Greca è considerata superiore a qualunque altra. Il suo pensiero è stato fondamentale: pensate che ha influenzato sia il modo di studiare l’Arte, sia il gusto estetico dalla fine del Settecento fino al XIX secolo inoltrato[3]! Sue sono le parole che per antonomasia descrivono le opere greche secondo l’ottica neoclassica:
Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione[4].
Dall’altro lato, Mengs era ritenuto dai suoi contemporanei il maggior pittore d’Europa, punto di riferimento per la pittura neoclassica. La sua pittura appariva come un’illustrazione pratica delle teorie di Winckelmann: probabilmente quei due, quando si incontravano all’aperitivo, non parlavano di molto altro.
«Da due così, che scherzi vuoi aspettarti?» – vi starete chiedendo, probabilmente annoiati.. E invece Mengs era un vero mattacchione.

L’opera che vedete qui sopra è introdotta agli annali della cronaca da Winckelmann con le seguenti parole:
Dopo che da tempo assai lungo non si era più scoperta né in Roma, né nelle sue vicinanze veruna antica pittura ben conservata, e poca speranza si poteva pur aver di scoprirne, tornò alla luce del giorno nel settembre 1760 una pittura, che non era mai fin a quel tempo stata veduta, e che anzi oscurava tutte le pitture Ercolanesi allora conosciute[5].
Avete capito bene! Mengs aveva sotterrato la pittura, poi aveva fatto il vago tipo: «ops, sono inciampato in…ma cos’è questa? Sarà mica una pittura antica?!?»
E dava corda al suo amico teorico, che era commosso, aveva gli occhi a stellina, non ci stava più dentro – immaginatevi – correva per lo scavo e faceva vedere a tutti quel pezzo di muro: «beh, raga, cioè, capolavoro. Guardate come è ben conservato!»
Sai com’è, Joachim, è stata fatta ieri! (Letteralmente).
Tra l’altro, pare che Mengs sia stato così infame da non confessare mai questa messinscena al suo amico!.
Perché Winckelmann ci è cascato?
Innanzitutto, bisogna ricordare che le conoscenze che abbiamo oggi sono di gran lunga superiori a quelle del passato: il Settecento è stato il secolo d’inizio degli scavi archeologici, prima di allora non vi era stato uno studio sistematico delle iconografie, dei motivi decorativi e delle opere d’arte dell’Antichità. Oggi abbiamo manuali, antologie di immagini e – soprattutto – guardiamo con occhio distaccato il Passato, ma all’epoca gli studiosi non avevano nulla se non il Presente e con cosa avrebbero potuto confrontarlo?
Inoltre, bisogna dirlo, Mengs è stato proprio bravo nello scegliere l’attimo da immortalare (oltre che nell’esecuzione,ovviamente). Se, infatti, per Winckelmann le opere antiche esprimevano «nobile semplicità e quieta grandezza», quale momento migliore da dipingere se non l’istante immediatamente precedente al bacio? E come sono dignitosi, questi Antichi, nel rappresentare le emozioni!

Oltre lo scherzo
Questa vicenda porta alla luce un’altra considerazione, forse un poco amara: quanto è grande il divario tra artisti e studiosi d’Arte? E la Storia, chi la fa: la persona che crea l’opera o quella che la “legge”?
Con questi simpatici quesiti esistenziali, si conclude il racconto della burla più spassosa del Settecento occidentale!
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