
Il 30 giugno, il presidente francese Macron ha incontrato i capi di stato del G5-Sahel, che riunisce Burkina Faso, Chad, Mauritaria, Mali e Niger. Nella stessa settimana, almeno trenta civili sono stati uccisi nella regione di Mopti, in Mali. Le autorità locali parlano di uomini armati, in tenuta militare, che in un solo giorno hanno incendiato e saccheggiato quattro villaggi, abitati prevalentemente da membri della comunità Dogon.
Nella regione, le tensioni intercomunitarie si fanno sempre più aspre. Da un lato, i Dogon, agricoltori e sedentari, e dall’altro i Peul, il più grande gruppo etnico nomade d’Africa, eredi di un’antica tradizione di allevamento e commercio di bestiame. Per entrambi, il controllo di terreni fertili e fonti d’acqua sono essenziali alla sopravvivenza della propria comunità. Accedere a questi beni fondamentali, tuttavia, diventa sempre più difficile. Alle conseguenze del cambiamento climatico, si aggiunge il cosiddetto land grabbing, ossia l’appropriazione del terreno da parte di terzi, in violazione dei diritti fondamentali delle comunità locali, private dei mezzi di sussistenza.
I gruppi jihadisti attivi sul territorio hanno saputo capitalizzare le tensioni esistenti: attingendo al crescente sentimento di emarginazione della comunità, hanno concentrato il reclutamento tra i Peul, sostenendo di agire in loro difesa contro i Dogon. Di conseguenza, i primi sono stati identificati come sostenitori e complici della violenza jihadista, diventando bersaglio delle milizie comunitarie di autodifesa, nonché delle stesse forze armate regolari. Solo nel mese di giugno, l’esercito maliano è stato accusato di aver razziato due villaggi nella regione di Mopti, uccidendo 43 civili, prevalentemente Peul. Secondo un rapporto della Missione di Stabilizzazione delle Nazioni Unite in Mali (MINUSMA), tra gennaio e giugno 2020 le forze di sicurezza si sono macchiate di 230 uccisioni sommarie, a cui si aggiungono sparizioni forzate, torture e altre gravi violazioni dei diritti umani. Dall’inizio dell’anno, la violenza di milizie comunitarie, gruppi armati e truppe regolari ha portato alla morte di 580 civili. Nell’ultimo biennio, secondo le stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), il numero di sfollati interni è raddoppiato, passando da 120.000 a più di 250.000 persone.
Dal 2012, il Mali è stretto nella morsa di un conflitto che ebbe inizio nelle più remote aree del Nord, ai confini con l’Algeria, nel cuore del Sahara. Nel gennaio di otto anni fa, i separatisti Tuareg del Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA) lanciarono la loro offensiva contro il governo centrale, conquistando il controllo di buona parte della regione settentrionale. Alle aspirazioni indipendentiste dei fondatori del movimento si unì la forza militare degli ex ribelli Tuareg che avevano lasciato il Mali per arruolarsi nell’esercito libico di Muammar Gheddafi. La dipartita del Colonnello e il conseguente vuoto di potere in Libia furono – e sono tuttora – fattori chiave dell’instabilità che attraversa l’intera regione. Il caos libico ha dato ai gruppi jihadisti l’opportunità di prosperare, aprendo loro le porte del Sahara, rifugio e al contempo via d’accesso ai paesi dell’intera fascia saheliana. L’inesorabile avanzata dell’insurrezione fu possibile solo grazie all’alleanza siglata dall’MNLA con i gruppi armati di matrice salafita-jihadista presenti nella regione. Un’alleanza che, tuttavia, ebbe vita breve: il Movimento indipendentista Tuareg venne infatti respinto verso Nord dalle forze jihadiste, che presero il controllo delle città occupate. L’eco della distruzione dei luoghi santi di Timbuctu non tardò ad arrivare in occidente, mentre parte del patrimonio culturale dell’antico snodo carovaniero veniva portato in salvo e custodito, in segreto, nella capitale.
A un anno dall’inizio della ribellione, il governo maliano chiese e ottenne l’intervento militare francese. In meno di un mese, Gao e Timbuctu tornarono sotto il controllo governativo. Dopo la riconquista di Kidal, ultima roccaforte dei gruppi armati, l’allora Ministro degli Esteri francese dichiarò che le truppe d’oltralpe avrebbero presto lasciato il paese. Dopo più di sette anni, la prospettiva del ritiro di Parigi è ancora lontana, tanto dal punto di vista militare quanto più sul piano politico. Nell’Aprile 2013, ai primi contingenti internazionali si aggiunsero i caschi blu delle Nazioni Unite. Nel 2014, l’intervento francese assunse una nuova dimensione: il mandato dell’operazione Barkhane si sarebbe esteso oltre i confini maliani, attraverso il Sahel. Nel 2017, sempre su spinta francese, nacque la Forza Congiunta del Gruppo dei Cinque per il Sahel, formata da membri delle forze di polizia e difesa di Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger.
Malgrado la massiccia presenza militare, i numeri del conflitto scorrono come granelli di sabbia. Mentre i gruppi armati jihadisti avanzano inesorabilmente nei paesi confinanti, il Mali è trascinato in una spirale di violenza, alimentata – avvertono gli esperti – dalle stesse strategie antiterrorismo messe in atto da Bamako e dai suoi alleati (per chi vuole approfondire, trovo valga la pena affrontare – in inglese – le pubblicazioni di Bruno Charbonneau, mentre il sempreverde Internazionale offre – in un impeccabile italiano – una buona gamma di articoli della stampa francese).
L’evidente fallimento delle forze governative nel porre un freno alle violenze ha esacerbato la situazione politica interna, portando migliaia di persone a protestare nelle strade della capitale, chiedendo le dimissioni del Presidente Ibrahim Boubacar Keita (IBK). Molteplici le ragioni che hanno condotto i maliani a manifestare: la perdurante crisi economica, ulteriormente aggravata dai provvedimenti anti COVID-19, la perdita di fiducia nelle istituzioni e l’incapacità di gestire un conflitto che ha consegnato il destino di gran parte del Paese nelle mani dei gruppi armati. Simbolo del fallimento dello stato maliano è il sequestro del principale leader dell’opposizione, Soumaila Cissé, rapito alla vigilia del primo turno delle elezioni legislative dello scorso marzo, presumibilmente dalla cellula di un gruppo jihadista, e tuttora prigioniero. Ed è proprio il risultato di quelle elezioni ad aver ulteriormente infiammato le proteste contro Keita, costretto, dopo la morte di quattro manifestanti, a dichiarare lo scioglimento della Corte costituzionale che lo aveva proclamato vincitore. Mentre il movimento d’opposizione conta le vittime della repressione governativa e chiama alla disobbedienza civile, i governi della regione cercano di salvare la poltrona di Keita, che sembra ormai aggrapparsi al solo appoggio dei partner internazionali. Malgrado la voce dei maliani si alzi sempre più forte dalle strade di Bamako, il suo eco non varca le sabbie del deserto, raramente oltrepassa i confini di un discorso accademico. Si insinua nella nostra quotidianità solo quando il mare ci consegna i frammenti di una storia che grida il dolore di un intero paese.