
Lunedì mattina, a poche ore dall’apertura del neoeletto Parlamento, l’esercito birmano ha arrestato i principali esponenti del governo civile, i leader della National League for Democracy (NLD) e la figura divenuta simbolo dell’opposizione al regime militare, Aung San Suu Kyi. Alle elezioni dello scorso novembre, il suo partito aveva conquistato la maggioranza assoluta dei seggi nel Parlamento di Naypyidaw. Per settimane, la fazione sostenuta dalla gerarchia militare del Tatmadaw – nome ufficiale dell’esercito birmano – si è rifiutato di riconoscere la sconfitta, contestando la validità dello scrutinio elettorale, a dispetto del benestare accordato da osservatori locali e internazionali. A soli sei giorni dalla seduta inaugurale delle camere, il Generale Min Aung Hlaing ha tenuto a ribadire la posizione dell’esercito in merito ai fondamenti del processo democratico: «la costituzione dovrebbe essere abolita, se non viene rispettata». A nulla è servito il rinnovato monito della commissione elettorale. Risuonati nel vuoto gli appelli delle Nazioni Unite e delle rappresentanze straniere. Lunedì, alle prime ore del mattino, il Tatmadaw ha arrestato il Presidente U Win Myint, Aung San Suu Kyi e altri esponenti del partito di governo. L’esercito ha annunciato che riprenderà le redini del potere per un anno, per assicurare lo svolgimento di nuove elezioni, “libere e democratiche”. Lunedì, i banchi del Parlamento di Naypyidaw sono rimasti vuoti davanti agli sguardi impotenti della diplomazia internazionale.

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Affacciato sull’Oceano Indiano, il Myanmar si inoltra nell’entroterra seguendo il corso del fiume Irrawaddy. Parte del vasto impero coloniale britannico, la Birmania conquista la sua indipendenza nel 1948 e si trova ad affrontare il sorgere di insurrezioni armate che andranno progressivamente a moltiplicarsi, formando negli anni un intricato mosaico di attori pronti a sfidare il governo centrale. Il colpo di stato del 1962 segna l’inizio di un regime militare la cui avidità porterà il Paese alla miseria: in soli 25 anni, una delle economie più ricche del Sud-Est asiatico precipita nella categoria dei least developed countries. Nel 1988, lo scontento popolare divampa: il capo della giunta militare lascia la testa dell’esecutivo, promettendo passi in avanti verso la democratizzazione del Paese. L’8 agosto 1988, quasi mezzo milione di persone si riversa nelle strade dell’allora capitale Yangon, dando inizio a quella che resterà alla storia come la rivolta dei Four Eights. La stagione delle proteste viene sedata nel sangue, una nuova giunta militare sostituisce la precedente, Aung San Suu Kyi fonda la National League for Democracy (NLD) ed è costretta agli arresti domiciliari. Ma sono gli anni della “terza ondata di democratizzazione” e il governo birmano ha bisogno di recuperare almeno parte della sua legittimità. Così decide di concedere elezioni libere e le perde – anche di parecchio – a beneficio della NLD. L’audace esperimento democratico è presto accantonato, Aung San Suu Kyi riceve il Premio Nobel per la Pace mentre si trova ancora agli arresti nella sua casa di Yangon.
Con il nuovo secolo il regime si trova suo malgrado ad affrontare – soprattutto sul versante internazionale – nuove spinte verso la democratizzazione, o quantomeno una sua formale parvenza. La Costituzione promulgata nel 2008 affida ai militari del Tatmadaw il 25% dei seggi in Parlamento, oltre alla vicepresidenza e al controllo di tre ministeri chiave. Non solo, il testo prevede – non a caso – che la carica di Presidente sia preclusa a cittadini birmani con un coniuge e/o figli di diversa nazionalità. La NLD boicotta le elezioni del 2010, che riconsegnano il potere nelle mani dei militari. Sarà il successivo scrutinio, quello del 2015, a consacrare l’agognata vittoria del partito fondato da Aung San Suu Kyi, che – vista la sua esclusione dalla presidenza – ricoprirà una carica creata ad hoc. La donna simbolo dell’opposizione al regime militare prende posto a capo di un governo democraticamente eletto, dopo una dittatura durata quasi mezzo secolo. La comunità internazionale saluta con favore i primi passi della giovane democrazia birmana.
Il sogno però inizia presto a sgretolarsi. Il Myanmar conta 135 gruppi etnici ufficiali, è diviso in sette stati e altrettante regioni. La sua storia è segnata da un susseguirsi di insurrezioni armate, fragili tregue e violente campagne di contro-insurrezione. La stessa denominazione ufficiale, Republic of the Union of Myanmar, fu introdotta dal regime nel tentativo di promuovere l’unità di un Paese dove a prevalere – già nel nome – era l’etnia maggioritaria dei Bamar. Nell’anno seguente alla sua indipendenza, la Birmania vede sorgere la prima insurrezione di matrice etnica, guidata dalla Karen National Union (KNU), che firmerà il primo cessate il fuoco solo nel 2012. Malgrado le aspettative e l’iniziale entusiasmo mostrato da Suu Kyi nel portare avanti le trattative con i gruppi armati, il processo di pace è tornato ad arenarsi. Se il Tatmadaw ha efficacemente sabotato i tentativi di conciliazione del governo civile, quest’ultimo – da parte sua – ha trascurato le rivendicazioni delle minoranze, incrementando le tensioni.

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La recrudescenza dei conflitti interni non ha fatto che esacerbare la situazione economica del Paese: i dati parlano di un drastico calo di crescita e investimenti, la popolazione continua a vivere in condizioni di povertà estrema, mentre i militari si tengono stretto il controllo di un’enorme fetta delle risorse disponibili. Una su tutte, la giada: pietra di cui il mercato cinese è particolarmente avido, come lo sono i vertici del Tatmadaw. In una proficua collaborazione con signori della droga e compagnie compiacenti, le élite militari birmane controllano un’industria i cui profitti arrivano a toccare la metà del PIL dell’intero Paese. Nello stato di Kachin, dove si concentrano le miniere, le reti criminali si nutrono del conflitto e contribuiscono a tenerlo in vita. Gli abitanti in miseria cercano i frammenti di giada durante la notte oppure sotto la pioggia torrenziale, quando le compagnie sono costrette a sospendere il lavoro. Lo scorso luglio, in una miniera di Hpakant, una frana ha causato quasi 200 morti. Solo uno dei tanti disastri ambientali causati dall’estrazione intensiva.
Ma il fallimento più manifesto del governo di Aung San Suu Kyi l’hanno mostrato le immagini dell’esodo di centinaia di migliaia di Rohingya, in fuga dalle violenze del Tatmadaw. Gli appartenenti alla minoranza musulmana non hanno diritto alla cittadinanza birmana, non compaiono nei censimenti, non fanno parte di quei 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dal governo di Naypyidaw. Nell’estate del 2017, il Tatmadaw lancia una campagna militare sullo stato del Rakhine: rapporti internazionali parlano di crimini commessi in modo sistematico a danno degli appartenenti alla comunità Rohingya. In soli due anni, sono più di 740.000 i rifugiati che hanno cercato riparo dalle violenze in Bangladesh. Nel dicembre 2019, Aung San Suu Kyi si è presentata dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia per difendere il Myanmar dalle accuse di genocidio mosse contro le sue forze militari.
Il primo febbraio, il colpo di stato del Tatmadaw ha costretto anche i più ottimisti a un brusco risveglio. Il tormentato sogno della democrazia birmana si è infranto ancora, davanti a un Parlamento vuoto. Resta da vedere chi troverà il coraggio di raccoglierne i pezzi.