
Per quelli che han vissuto / Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo / Per chi ne ha paura
Dopo il suicidio di Moussa Balde, avvenuto lo scorso 23 maggio, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI) ha raccolto in un unico documento le sistematiche violazioni testimoniate tra le mura del centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Corso Brunelleschi, a Torino. Racconti che descrivono la costante disumanizzazione dei “trattenuti” e fanno eco al recente rapporto del Garante nazionale incaricato del monitoraggio dei CPR attivi sul territorio italiano.
Moussa Balde non aveva nemmeno vent’anni quando è arrivato in Italia dalla Guinea, nel 2017. Presentata la richiesta di protezione internazionale, ne aspettava l’esito nel centro di accoglienza straordinaria (CAS) di Imperia. “[I]n questo paese ho avuto un assaggio di come la vita può essere bella”, confidava a una telecamera nel maggio di quattro anni fa. Attesa per mesi, la convocazione da parte delle autorità italiane tardava ancora, così il giovane guineano ha lasciato la città ligure per oltrepassare il confine francese.
Respinto nuovamente in Italia, si è ritrovato sulle strade di Ventimiglia, come tanti, troppi altri. Era il 9 maggio scorso, quando Moussa Balde è stato brutalmente picchiato da tre cittadini italiani. Il pestaggio è stato ripreso, il video è circolato su social media e giornali nazionali, provocando un’ondata (seppur effimera) di indignazione e portando all’identificazione dei responsabili, denunciati a piede libero per lesioni aggravate. Il giorno seguente all’aggressione, dall’ospedale dov’era ricoverato per le ferite riportate, Moussa Balde è stato trasferito al CPR di Torino, in quanto destinatario di un decreto di espulsione. Messo in isolamento per una presunta infezione dermatologica, morirà impiccato alle lenzuola del suo letto, solo due settimane dopo le botte subite a Ventimiglia.
Il suicidio di Moussa Balde ha esposto all’attenzione dei media nazionali e dell’intera popolazione quella che ASGI ha definito come “una ferita nello stato di diritto”. Il 4 giugno scorso, i giuristi piemontesi sono scesi in piazza, di fronte alla Questura di Torino: le toghe indosso, a denunciare la disumanità che regna oltre i cancelli dei CPR, invocando il rispetto dei diritti negati al giovane guineano e ad altri prima di lui. Oggi, il direttore e il medico coordinatore del centro di Corso Brunelleschi sono indagati dalla Procura di Torino per omicidio colposo.

Da anni ormai, ASGI denuncia le sistematiche violazioni dei diritti fondamentali commesse ai danni dei cittadini stranieri trattenuti nei CPR, gli “ospiti” per citare il termine generalmente utilizzato dagli enti privati a cui è affidata la gestione dei centri. Un linguaggio – spesso ripreso dai media nazionali – che restituisce un’immagine a dir poco edulcorata della situazione all’interno dei CPR, paragonabile – denuncia l’Avv. Maurizio Veglio – a quella di “un carcere di massima sicurezza per persone innocenti”. Benché i CPR siano strutturalmente assimilabili all’ambiente carcerario, coloro che vi sono trattenuti non hanno lo status giuridico dei detenuti soggetti all’ordinamento penitenziario e di conseguenza non godono delle garanzie previste da quest’ultimo.
Gli attuali CPR nascono più di vent’anni fa con il nome di Centri di permanenza temporanea (CPT), rinominati Centri di identificazione ed espulsione (CIE) nel 2008 e nuovamente ribattezzati dalla Legge n. 46/2017. Ai sensi del decreto che ne ha disposto la creazione nel 1998, essi “sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione” (art. 14, D.Lgs. 286/1998). L’ordine di trattenimento è disposto dal questore, laddove l’immediata espulsione o respingimento siano impediti da situazioni di carattere transitorio. Ad individuare il centro di assegnazione è il Ministero dell’Interno, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre la convalida del provvedimento e delle sue eventuali proroghe è affidata al Giudice di pace. Per quanto riguarda il periodo massimo di permanenza, questo ha subìto diverse modifiche nel corso degli anni: raddoppiato con il c.d. decreto sicurezza del 4 ottobre 2018, è stato riportato a 90 giorni (120 in determinate circostanze) nell’ottobre 2020 (D. Lgs. 130/2020).
Malgrado per alcuni tra i lettori possa rivelarsi scontato, è importante ricordare che chi si trova all’interno dei CPR non è trattenuto in esecuzione di una sanzione penale: molti degli stranieri in attesa di espulsione non sono mai stati incriminati e coloro che invece provengono dal sistema carcerario hanno già scontato la pena prevista. Il trattenimento nei centri costituisce una forma di detenzione amministrativa, che priva i trattenuti della propria libertà personale senza tuttavia garantire la benché minima tutela e lasciando ampia discrezione alla pubblica amministrazione, nonché ai privati a cui è appaltata la gestione delle singole strutture.
Nella gran parte dei casi, nei CPR è negato il diritto di comunicare con l’esterno: i cellulari personali sono sequestrati, oppure privati di videocamere e connessione internet, i telefoni fissi all’interno delle strutture sono insufficienti, malfunzionanti e non possono ricevere chiamate in entrata. Una situazione che ostacola le comunicazioni con i legali e, di conseguenza, la possibilità per i trattenuti di esercitare il proprio diritto alla difesa. La qualità della vita detentiva, ha sottolineato nel suo rapporto il Garante nazionale, è drammaticamente insufficiente: i CPR sono caratterizzati da una totale assenza di attività ricreative o formative, i rapporti tra i trattenuti e gli operatori del centro quasi inesistenti e le strutture sono inesorabilmente chiuse a qualsiasi ente associativo esterno.
“Come se l’individuo smettesse di essere persona con una propria totalità umana da preservare nella sua intrinseca dignità, dimensione sociale, culturale relazionale e religiosa per essere ridotta esclusivamente a corpo da trattenere e confinare.” [Rapporto sulle visite effettuate nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR) (2019-2020), Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale]

in alto a destra, la struttura destinata all’isolamento dei trattenuti, denominata “ospedaletto”.
Lo stesso Garante nazionale ha espresso grave preoccupazione in merito a un ricorso improprio all’isolamento dei trattenuti – contemplato dalla normativa vigente per sole ragioni sanitarie – e alla totale inadeguatezza delle strutture ad esso preposte. L’esempio descritto nel rapporto è proprio quello del cosiddetto “ospedaletto” del CPR di Torino, dove Moussa Balde si è tolto la vita in una notte di maggio. Dove due anni fa veniva rinchiuso Hossein Faisal, cittadino bengalese, costretto a vivere in una di quelle “gabbie pollaio” per cinque mesi, fino alla morte per un presunto arresto cardiaco, nel luglio 2019. Il rapporto di ASGI racconta che Hossain dormiva ormai per terra, nel minuscolo cortile antistante la cella, anch’esso completamente recintato “come le vecchie sezioni di uno zoo”.
Tra le tante criticità del sistema dei CPR – che abbiamo potuto illustrare solo in parte in questo articolo – risulta evidente l’assenza di un’assistenza sanitaria adeguata: contrariamente a quanto disposto dalla normativa vigente, la certificazione di idoneità – necessaria all’ingresso nel centro – è spesso rilasciata dallo stesso ente gestore della struttura e non dal servizio sanitario nazionale. Non solo, l’insufficiente coordinamento con quest’ultimo ha già portato alla mancata presa in carico di patologie pregresse, problemi di tossicodipendenza o gravi vulnerabilità psichiatriche, con il conseguente rischio di episodi di autolesionismo.
Proprio in merito a questi ultimi, Il libro nero del CPR di Torino offre un tragico resoconto: su base quotidiana, i trattenuti si procurano tagli, fratture e ustioni; ingeriscono oggetti di ogni tipo, lamette, batterie; attuano scioperi della fame; si cuciono le labbra. Eppure, a differenza di quanto previsto nell’ordinamento penitenziario, i gestori dei CPR non sono tenuti a produrre alcun registro dei cosiddetti “eventi critici”. I cellulari sono requisiti, a giornalisti e società civile è proibito l’ingresso, tutto ciò che accade all’interno dei CPR è coperto da una spessa coltre di silenzio. Per quanto riguarda il centro di Corso Brunelleschi, gli ultimi dati risalgono al 2011: 156 episodi di autolesionismo.
Intervistato da Human Rights Watch nel 2017, l’allora direttore sanitario del CPR di Torino dichiarava: “Io non posso mandarli a casa se si tagliuzzano o per altro […] Sono taglietti da quattro soldi, se li fanno anche a casa […]”
Venite in Paradiso / Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno / Nel mondo del buon Dio
[Fabrizio De André, Preghiera in gennaio]