
Il 10 marzo, i vertici dell’Organizzazione Internazionale del Commercio (WTO) si sono riuniti a Ginevra. All’ordine del giorno, l’iniziativa avanzata lo scorso ottobre da India e Sud Africa: sospendere i brevetti sui vaccini anti-COVID19. Un provvedimento che – a detta dei suoi sostenitori – permetterebbe di accelerare la produzione di vaccini su larga scala, garantendone una più equa distribuzione a livello globale.
La proposta, sottoscritta da più di cento altri Paesi e appoggiata dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si è scontrata con la prevedibile opposizione delle case farmaceutiche e la resistenza degli Stati di appartenenza, tra i maggiori produttori – e destinatari – dei vaccini. Alla conferenza ministeriale del WTO, questo gruppuscolo di Stati, a cui ha fatto eco il Brasile, ha ribadito il proprio rifiuto, sollevando un nuovo coro di proteste tra le organizzazioni della società civile. Suonano lontane le parole pronunciate lo scorso aprile dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, che affermò di voler fare del vaccino un “bene comune universale”.
Mentre alcuni governi si assicuravano scorte sufficienti a vaccinare due, tre, quattro volte la propria popolazione, decine di Paesi si sono trovati a racimolare le briciole. All’inizio di marzo, più della metà dei Paesi a reddito basso e medio-basso non aveva ancora somministrato una sola dose di vaccino. Nel frattempo, la situazione epidemiologica si è aggravata: in diversi Paesi dell’Africa meridionale Medici Senza Frontiere (MSF) parla di un numero di contagi superiore a quello registrato nell’intero 2020. L’International Rescue Committee (IRC) avverte invece dei rischi legati alla diffusione del contagio in contesti di conflitto – come in Nigeria o nella Repubblica Democratica del Congo – e in quei Paesi che si trovano a ospitare centinaia di migliaia di rifugiati – come Libano e Giordania.
Mappa interattiva dal sito Our World In Data, dosi di vaccino ogni somministrate 100 persone
Una pandemia è tale perché non conosce confini: se la somministrazione dei vaccini resterà privilegio di alcuni, il mondo continuerà a esserne prigioniero. Come sottolineato dallo stesso direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ovunque si propaghi, il virus avrà l’opportunità di mutare, mettendo a repentaglio l’efficacia dei vaccini sviluppati finora. Per questa ragione, al fine di assicurare un accesso più equo ai vaccini, l’OMS ha messo in campo il programma COVAX, gestito in collaborazione con la Global Vaccine Alliance (Gavi) e la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi).
Finanziata da Stati, fondazioni e organismi internazionali, la piattaforma si occupa di negoziare l’acquisto dei vaccini per poi distribuirli, gratuitamente o a prezzi agevolati, ai Paesi ritenuti idonei. Secondo le stime dell’OMS, COVAX permetterebbe agli Stati beneficiari di vaccinare il 3% della loro popolazione entro giugno 2021, il 20% entro la fine dell’anno. Nello stesso arco di tempo, i Paesi ad alto reddito ambiscono invece a raggiungere la tanto agognata immunità di gregge. Una meta che molti, tra gli Stati beneficiari delle dosi COVAX, non raggiungeranno prima del 2024. Questi numeri sono la cartina tornasole di un sistema che non sa far altro che riprodurre – e aggravare – le disparità esistenti, tanto a livello globale quanto all’interno dei singoli stati.

Sebbene COVAX sia stato ideato al fine di garantire un’equa redistribuzione dei vaccini tra gli Stati parte, i più ricchi tra questi continuano a siglare accordi bilaterali con le case farmaceutiche, contribuendo a far aumentare i prezzi e a ridurre di fatto le potenziali riserve della piattaforma comune. Mentre le prime dosi fornite da COVAX vengono somministrate, timidamente, in alcuni Paesi africani – per primo, il Ghana – l’Unione Europea bisticcia con le aziende farmaceutiche che accumulano ritardi nelle forniture. La produzione non riesce a stare al passo, i vaccini scarseggiano, le dosi disponibili se le aggiudica il più forte. Che fare?
Qualcuno propone di sospendere i brevetti, e la difesa del profitto si maschera dietro la bandiera dell’innovazione. Chi si oppone all’iniziativa, lo fa avanzando tre principali argomenti. C’è chi sostiene che la sospensione dei brevetti non sarebbe comunque sufficiente a consentire una produzione su larga scala: solo poche aziende avrebbero capacità e know-how necessari a sviluppare i vaccini. Una tesi che può dirsi valida – almeno parzialmente – solo per i vaccini a mRNA, che richiedono tecniche di produzione più innovative e più complesse rispetto ai vaccini di tipo “tradizionale”. C’è poi chi sottolinea che in seno all’OMS esistono già dei meccanismi di deroga, pensati per situazioni di emergenza. Questi soffrono tuttavia di importanti limitazioni, anche a detta degli stessi commentatori che si dicono contrari alla sospensione dei brevetti. L’argomento sostenuto con più veemenza pone invece la questione dei brevetti come indispensabile incentivo all’innovazione in campo farmaceutico. L’eventuale sospensione comprometterebbe il progresso della ricerca medica, che resta guidata – in modo preponderante – dalla prospettiva di profitto che le norme internazionali sulla proprietà intellettuale contribuiscono a garantire.
Nel campo avversario, si sottolinea invece come le case farmaceutiche, nel caso dei vaccini anti-COVID, abbiano beneficiato di importanti investimenti pubblici, senza per questo rinunciare a parte dei loro profitti. Alla prossima conferenza ministeriale del WTO, la proposta di Sud Africa e India sarà di nuovo sul tavolo. Nel frattempo, si moltiplicano le iniziative di organizzazioni non governative e comuni cittadini. The People’s Vaccine Alliance riunisce decine di ONG internazionali. L’Appel de Paris è stato firmato la scorsa settimana da medici, intellettuali, sindacati e ONG francesi. No Profit On Pandemic è un’iniziativa dei cittadini europei (ICE), indirizzata alla Commissione. La sua prima richiesta? Salute per tutti.