
Quel conteso pezzo di terra che chiamiamo a volte Israele e a volte Palestina è di nuovo in fiamme. Le notizie che arrivano dalla zona sono tante, e tutte poco confortanti: razzi, missili, bombardamenti aerei, scontri tra civili e polizia, zuffe tra bande armate, sfratti, e soprattutto morti e feriti. In aggiunta a questo mare di notizie c’è un oceano di opinioni, spesso basate (a mio parere) su racconti incompleti e parziali.
È in questo confuso scenario che spero che questo articolo – con tutte le sue limitazioni – possa mettere un po’ d’ordine e aiutare i lettori a capire cosa sta succedendo in quel di Gerusalemme e dintorni. Non pretendo di essere completamente esaustivo (come esserlo, su un tema così complesso), né di offrire una visione perfettamente neutrale (ognuno ha la propria opinione, io compreso). Quello che spero l’articolo possa fare, però, è dare degli strumenti a chi legge per capire un pochino meglio gli eventi delle ultime settimane in Israele/Palestina.

Cosa sta succedendo?
Nel mare di notizie che ci arriva dalla regione, ci sono quattro dinamiche importanti, tutte legate tra loro, ma allo stesso tempo diverse.
Due di queste dinamiche sono purtroppo relativamente familiari. La prima riguarda il conflitto tra gruppi armati palestinesi basati a Gaza e l’esercito israeliano, un conflitto che ha causato 12 morti in Israele (a causa dei razzi lanciati dalla striscia di Gaza) e oltre 220 a Gaza (a causa della pesantissima risposta dell’esercito israeliano). La seconda, anche questa già vista, riguarda gli scontri tra manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, due dei cosiddetti “territori occupati”.
Le altre due dinamiche, invece, sono più inedite – e purtroppo anche più trascurate da giornali e TG vari. La prima, sempre per restare in tema di scontri, riguarda le violenze tra civili arabi ed ebrei sul territorio israeliano, soprattutto nelle cosiddette “città miste” di Lod, Acri, e Giaffa. Infine, ultimo ma non meno importante, lo sciopero generale attuato dalla popolazione palestinese sia in Israele che nei territori occupati.
Tante notizie e tanti termini, che forse necessitano di qualche spiegazione.
I luoghi del conflitto
“Israele”. Definire i confini dello stato di Israele non è impresa facile, visto la quantità di conflitti passati e presenti legati al controllo della terra nella zona. Per fare un po’ di chiarezza, si può usare il metro di misura adottato dalla comunità internazionale a riguardo, usando quindi i confini che Israele aveva fino a prima del 1967 (vedi mappa qui sotto), anno della famigerata “Guerra dei sei giorni” combattuta contro i vicini arabi Egitto, Siria, e Giordania.

“I territori occupati”. Per contro, i cosiddetti territori occupati sono i territori che Israele ha occupato con la forza durante la guerra del 1967. I territori che rimangono sotto occupazione israeliana ad oggi sono le alture del Golan, la Cisgiordania, Gerusalemme Est, e la striscia di Gaza (presa all’Egitto). Il Golan e Gerusalemme Est sono stati annessi da Israele nel 1980-81, anche se l’annessione non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale. Per contro, in Cisgiordania e a Gaza i palestinesi hanno guadagnato un certo grado di autonomia di governo in seguito agli accordi di Oslo del 1993-95, anche se è doveroso notare che questa autonomia è rimasta sempre molto limitata.
Caso a parte è quello della striscia di Gaza, da cui Israele si è completamente ritirato nel 2005. Mentre il controllo interno è passato ai palestinesi, però, Israele mantiene (insieme all’Egitto) uno stretto controllo ai confini della striscia. Qui, l’esercito israeliano restringe pesantemente i movimenti di persone e merci, dichiarando questa misura necessaria per evitare il trasferimento di armi a gruppi armati che da Gaza bersagliano Israele.
“Gli insediamenti”. Gli insediamenti sono comunità abitate da israeliani all’interno dei territori occupati. La costruzione di questi insediamenti è iniziata già nel 1968, un anno dopo la guerra del 1967, per poi espandersi fortemente a partire dalla fine degli anni ‘70 fino ai giorni nostri. Fuori da Israele, gli insediamenti sono stati ampiamente condannati come illegali dalla comunità internazionale (inclusi gli Stati Uniti, storico protettore di Israele). In Israele, al contrario, sono stati accettati da praticamente tutti i governi israeliani degli ultimi cinquant’anni, e perfino incoraggiati da alcuni governi (in particolare quelli a guida Likud, un partito della destra nazionalista che vede i territori occupati come parte integrante della “terra promessa” di Israele).

Fonte: Al-Jazeera.
“Le città miste”. Le città miste sono città all’interno dello stato di Israele dove c’è una percentuale significativa di palestinesi con cittadinanza israeliana. Alcune delle maggiori città sono Lod, Acri, e Giaffa (purtroppo, quelle menzionate sopra come teatro degli scontri tra civili ebrei e palestinese), dove circa un terzo della popolazione è composta da palestinesi.
Tanti conflitti, tantissimi attori
“Gli israeliani”. Gli israeliani, troppo spesso considerati come un blocco unico, in realtà sono tutto tranne che un blocco unico – al contrario, dentro Israele c’è di tutto e di più. In termini di cittadini, la popolazione non è per nulla omogenea. Anche se circa il 75% della popolazione è composta di ebrei, all’interno di questo 75% ci sono gruppi di varie origini (gli ebrei di origine centro-Europea, per esempio, hanno tradizioni diverse da quelli di origine iberica o nord-Africana). In aggiunta, un 20% della popolazione di Israele è composta da arabi/palestinesi con cittadinanza israeliana.
In termini di partiti politici e relative visioni, la diversità all’interno di Israele è ancora più vasta. Per dare un’idea, si va dagli estremisti religiosi ebraici che vogliono che Israele sia uno stato per gli ebrei più che per gli arabi, alla Lista Comune che raccoglie i partiti arabi israeliani e al partito islamista Ra’am. Nel mezzo, una marea di altri partiti di vario orientamento, tra cui il Likud (destra nazionalista, al governo dal 2001) e i laburisti (ex partito di maggioranza nei primi decenni di esistenza di Israele, ma ormai ridotto alla quasi irrilevanza). Tanta diversità, quindi, sia di persone che di pensiero.
“I palestinesi”. Allo stesso modo, anche i palestinesi – spesso visti come una popolazione omogenea – hanno le loro grandi diversità interne. Circa 1.5 milioni di palestinesi vivono in Israele, hanno la cittadinanza israeliana, e – anche se soffrono diversi tipi di discriminazione (più informazioni tra poco) – godono di vari diritti che la cittadinanza porta con sé – per esempio, beneficiano dell’assistenza sanitaria dello stato e partecipano attivamente alla vita politica. I palestinesi nei territori occupati, invece, vivono un’esperienza completamente diversa, dal momento che non godono degli stessi diritti. Per fare ancora qualche esempio, non possono votare, e non hanno ricevuto la vaccinazione anti-Covid che è stata invece distribuita a tutti i cittadini israeliani (inclusi quelli arabi).
Le diversità all’interno dalla comunità palestinese sono profonde anche da un punto di vista politico. Per fare l’ennesimo esempio, Fatah – il partito dominante in Cisgiordania – ha riconosciuto il diritto di Israele a esistere e propone la creazione di uno stato palestinese laico, senza un ruolo ufficiale per la religione. Per contro, Hamas – che controlla invece Gaza – non riconosce il diritto di Israele a esistere e propone un forte ruolo per l’Islam nello stato palestinese. Per avere un’idea di quanto vaste siano le differenze, basti sapere che nel 2007 Fatah e Hamas si sono scontrati armi in braccio a Gaza. Infine, aldilà di Fatah e Hamas, c’è una larga schiera di palestinesi che si sentono mal rappresentati dalla loro classe politica. Come nel caso degli “israeliani”, un bel calderone.
Perché tutto questo casino?
Fatte le doverose premesse sui luoghi e gli attori del conflitto, resta comunque da capire quali sono le origini di tutte le brutte notizie di cui si sente tanto parlare. Per farlo, si può guardare agli eventi in due modi: un po’ più superficialmente, concentrandosi sugli eventi dello scorso mese; o un po’ più a fondo, cercando di esplorare le cause profonde di questi eventi.
La visione più superficiale. Nella visione un po’ più superficiale, gli avvenimenti dell’ultimo mese hanno tre eventi scatenanti. Il primo riguarda le tensioni alla Porta di Damasco, a Gerusalemme, dove la decisione delle autorità israeliane di bloccare l’accesso alla Porta durante il mese sacro del Ramadan ha creato tensione con i residenti arabi della zona. Il secondo riguarda la circolazione di diversi video che mostrano violenze gratuite perpetrate da arabi nei confronti di ebrei e da ebrei nei confronti di arabi – video che hanno scatenato reazioni forti da entrambe le parti, alimentando una spirale di vendetta e violenza. Infine, il terzo evento scatenante riguarda gli sviluppi nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, dove una corte israeliana ha ordinato lo sfratto di famiglie arabe dal quartiere in seguito a una disputa legale con un’organizzazione ebraica che reclama la proprietà di dei terreni dove queste famiglie abitano. La somma di questi tre eventi ha creato una tempesta perfetta.
Quando gli scontri tra manifestanti e polizia israeliana hanno raggiunto la moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro per eccellenza per i musulmani, è scattata la miccia finale: Hamas ha lanciato una serie di razzi da Gaza verso Israele, l’esercito israeliano ha lanciato una pioggia di attacchi contro Gaza – con il triste risultato di cui sopra.

Credits: BBC.
La visione più profonda. Per quanto importanti, gli eventi descritti qui sopra sono semplicemente la scintilla che ha fatto scoppiare le tensioni di questo mese. Per capire queste tensioni, però, guardare la scintilla non basta: bisogna anche guardare il barile di polvere da sparo che la scintilla ha fatto esplodere. E questo barile, a mio parere, è la situazione di discriminazione in cui la popolazione araba-palestinese si trova.
Per quanto riguarda Israele, la popolazione araba gode della cittadinanza israeliana e di alcuni dei privilegi che questo status concede, ma rimane comunque discriminata. Aldilà delle accuse di discriminazione in termini di allocazione di terreni, o sul mercato del lavoro, l’esempio più chiaro è forse quello della cosiddetta “legge sullo stato-nazione” passata dal parlamento israeliano nel 2018. Per citare i punti più rilevanti, la legge sancisce che “lo stato di Israele è lo stato-nazione del popolo ebraico”, e che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è un diritto esclusivo del popolo ebraico” – affermazioni che, a detta di molti, creano una gerarchia (e quindi una discriminazione) tra cittadini su base etnica (se vi interessa approfondire, consiglio questo dibattito). Per quanto riguarda i territori occupati, la discriminazione è ancora più evidente. L’occupazione militare che originariamente doveva essere temporanea si trascina ormai da più di quarant’anni. In aggiunta, il costante sviluppo di insediamenti ha reso la vita particolarmente difficile per gli abitanti palestinesi dei territori occupati. Dispersi su tutto il territorio, soprattutto in Cisgiordania, gli insediamenti permettono una presenza costante dell’esercito israeliano, e le strade che connettono le varie comunità di coloni israeliani spezzettano i territori abitati dai palestinesi. Alla luce di questa situazione, la ONG Human Rights Watch ha recentemente accusato Israele di crimini di apartheid – un’accusa che, aldilà del dibattito giuridico sull’appropriatezza del termine, dà un’idea di quanto seria sia la questione.
Il governo israeliano sostiene che il comportamento delle autorità israeliane non è discriminatorio, ma è semplicemente mirato a fare rispettare la legge e a proteggere i cittadini israeliani da attacchi terroristici. La percezione della popolazione palestinese, però, è che la legge stessa sia fonte di discriminazione e oppressione. L’esempio della disputa di Sheikh Jarrah è interessante a riguardo. La storia del terreno in questione pare essere questa. Il terreno viene acquistato nel lontano 1875 da privati ebrei, e poi trasferito a organizzazioni non-profit ebraiche. Durante la guerra del 1948, la Giordania conquista questo terreno, e decide di trasferirci famiglie palestinesi rimaste senza casa durante la guerra. Nel 1967, però, arriva una nuova guerra, in cui Israele prende controllo di Gerusalemme Est, incluso Sheikh Jarrah. Secondo la legge di Israele, che ancora oggi esercita controllo sul quartiere, la fondazione ebraica che reclama la proprietà del terreno prima del 1948 può recuperare il terreno, in quanto questo gli era stato tolto durante la guerra. Fin qui, tutto comprensibile. Questo stesso diritto di recuperare i terreni persi durante la guerra, però, non esiste per i palestinesi, che vedono quindi lo sfratto come una profonda ingiustizia sanzionata dalla legge – e anche come parte di un più ampio sforzo del governo israeliano di sfrattare la popolazione palestinese da Gerusalemme Est.

Credits: Oren Zviv.
È quindi in questo contesto generale di discriminazione che gli avvenimenti dell’ultimo mese – il conflitto tra Hamas e Israele, gli scontri in Cisgiordania e a Gerusalemme, gli scontri tra civili arabi ed ebrei, e lo sciopero generale palestinese – possono forse essere compresi un po’ più a fondo.
E ora cosa succede?
Questa è la domanda da un milione di euro, a cui nessuno può rispondere. Alcuni dicono che gli scontri si affievoliranno come già successo in passato. Altri fanno notare, però, che questa volta non è come le altre: gli scontri a Gaza e nei territori occupati sono relativamente familiari, ma la violenza tra civili e l’unità tra la popolazione araba di Israele e i palestinesi nei territori occupati sono dinamiche più inusuali – e, nel caso delle violenze tra civili, anche più preoccupanti. Questo, però, sarebbe probabilmente l’argomento di un altro articolo. Se siete interessati a esplorare un po’ più a fondo, consiglio questo ottimo articolo di Valigia Blu. Inoltre, se i nostri beneamati lettori lo desiderassero, Echo Raffiche è pronta a offrire una serie di articoli che spieghino un po’ più in dettaglio la storia di questo conteso pezzo di terra che chiamiamo a volte Israele e a volte Palestina.
Le opinioni espresse nell’articolo sono solamente quelle dell’autore, e non riflettono necessariamente quelle di Echo Raffiche o di istituzioni a cui l’autore è affiliato.