
Il Sud Sudan ha ottenuto l’indipendenza nove anni fa. Una ventennale guerra civile (dal 1983), un accordo di pace (nel 2005), un referendum per la secessione. È l’ultimo Stato riconosciuto ufficialmente dalle Nazioni Unite, il 193º a sedere nell’Assemblea Generale. La sua capitale, Juba, giace sulle sponde del Nilo Bianco. La quasi totalità della sua ricchezza riposa invece sull’esportazione di idrocarburi: il Sud Sudan possiede la terza riserva d’oro nero del continente africano. Con la secessione di Juba, il governo del Nord (l’attuale Sudan) perde l’80% dei suoi giacimenti di petrolio. D’altra parte, separandosi da Khartoum, il Sud è privato dell’accesso al Mar Rosso: gli oleodotti corrono ora in territorio straniero e, senza un accordo con l’antico nemico, il greggio non può raggiungere Port Sudan. Pochi mesi dopo l’indipendenza, le estrazioni si fermano e con esse l’economia dell’intero Paese. Le tensioni con il governo di Khartoum riprendono mentre la crisi economica inghiotte ciò che era rimasto di un territorio dilaniato da una guerra pressoché infinita.
La ribellione degli stati del Sud al governo di Khartoum ha accompagnato la storia del Sudan sin dalla fine del dominio coloniale britannico, resa ufficiale nel 1956. Il primo accordo di pace, siglato nel 1972, ha avuto vita breve. Le politiche attuate dal governo centrale, corrotto e dittatoriale, si sono volte a una crescente islamizzazione: con l’imposizione della Shari’a sull’intero territorio, la popolazione cristiano-animista del Sud si è sollevata nuovamente contro Khartoum. Nel 1983 parte dell’esercito nazionale si è ammutinato, dando inizio alla seconda guerra civile sudanese. Il conflitto, conclusosi nel 2005, è costato al Paese due milioni di morti e quattro milioni di sfollati. Dopo cinque anni di autonomia, nel gennaio 2011, la popolazione degli stati del Sud ha scelto di votare per l’indipendenza. Il risultato del referendum porterà alla proclamazione della Repubblica del Sudan del Sud. A capo del governo provvisorio, gli uomini che avevano guidato l’opposizione a Khartoum. A Juba, folle festanti sventolano la nuova bandiera del Sud Sudan indipendente.
Dopo soli due anni, durante un’altra estate, ogni speranza di pace si sgretolerà di fronte alle reciproche accuse tra il neonominato presidente e il suo vice, i leader della ribellione contro il Nord, ora rivali nella prima guerra civile del Sud Sudan indipendente. Lo scontro di potere tra Salva Kiir e Riek Machar ha presto assunto il profilo di un conflitto interetnico tra le rispettive comunità di appartenenza, Dinka e Nuer. Nel dicembre 2013, all’infiammarsi dei combattimenti armati, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’intervento di un nuovo contingente di caschi blu in appoggio alla Missione già dispiegata nell’estate 2011. Dopo cinque anni di massacri e un primo accordo di pace finito a brandelli, nel settembre 2018 il presidente Salva Kiir ha firmato una nuova intesa con il capo della fazione ribelle ed ex vicepresidente Riek Machar. Il conflitto ha lasciato dietro di sé 383.000 vittime, uccise durante i combattimenti o morte per consunzione e malattia, a causa della crisi alimentare innescata dalla persistente insicurezza. Più di due milioni di sud sudanesi – circa un sesto dell’intera popolazione – sono stati registrati come rifugiati o richiedenti asilo nei paesi confinanti.

Mesi di stallo politico hanno visto il Paese ricadere più e più volte in nuove spirali di violenza. Il 22 febbraio 2020, il governo di unità nazionale ha finalmente visto la luce, salutato con favore dall’intera comunità internazionale. Esortati da quest’ultima, lo scorso giugno gli ex rivali hanno trovato un accordo sulla spartizione dei governatori degli stati regionali, la cui designazione andrebbe a colmare il vuoto di potere che ha portato la violenza ad imperversare indisturbata, mentre la pandemia limitava drasticamente l’accesso degli aiuti umanitari. Mentre il contagio colpiva diversi membri dell’apparato dirigente sud sudanese, il crollo del prezzo del greggio ha messo nuovamente a dura prova la tenuta finanziaria del Paese. Malgrado la guerra civile sia giunta ufficialmente al termine, nel primo semestre del 2020 i civili uccisi sono più di 1.500. Ancora tante, troppe ombre minacciano la stabilità del governo di Juba. Lo scorso 12 agosto, un’operazione di disarmo lanciata dall’esercito regolare si è trasformata in una carneficina costata la vita a 85 civili e 63 soldati.

Ai cosiddetti man-made disasters, si aggiungono eventi naturali di proporzioni sempre più devastanti. Le esondazioni del Nilo Bianco e dei suoi affluenti colpiscono ogni anno centinaia di migliaia di persone. Nell’agosto 2019, eccezionali inondazioni hanno portato alla perdita di migliaia di capi di bestiame. Se il budget dello Stato riposa sul greggio, la quotidiana sopravvivenza di gran parte della popolazione ruota invece attorno ad agricoltura e allevamento. Ed è soprattutto intorno alle grandi mandrie bovine che si sono sviluppati miti, norme e rituali delle comunità che abitano il Sud Sudan. La proprietà dei capi di bestiame è indicatrice di prestigio sociale: è con questi che si paga il prezzo della propria sposa, si saldano debiti e ricompense. Con il perpetuarsi del conflitto civile e il deteriorarsi della situazione umanitaria, quella che era un’usanza praticata su piccola scala tra le comunità nomadi si è trasformata in un esteso fenomeno criminale: il furto di bestiame è diventato arma di guerra. Complici di questa evoluzione sono la diffusione delle armi da fuoco di piccolo calibro – ormai accessibili all’intera popolazione – e la strumentalizzazione delle divisioni etniche da parte di attori politici locali e reti criminali che oltrepassano tanto le frontiere comunitarie quanto quelle nazionali.
In Sud Sudan, come attraverso l’intera regione, risorse naturali, conflitti e cambiamento climatico si intrecciano in un complesso groviglio di eventi, narrati troppo spesso attraverso un’unica chiave di lettura. Ed è così che un conflitto viene presentato come una guerra per il petrolio, un altro come un sanguinoso conflitto etnico oppure interreligioso: singole etichette che ci impediscono di guardare oltre, di decifrare la violenza, che non è mai innata, mai culturale, mai inevitabile.