
Il 25 settembre 2020 è iniziata in tutti gli Stati dell’Unione Europea la raccolta di firme per sostenere la proposta “Start Unconditional Basic Incomes throughout the EU”. Tale proposta si presenta come una “iniziativa dei cittadini europei” (ICE), uno degli strumenti di partecipazione diretta alla creazione della legislazione europea, introdotto con il Trattato di Lisbona del 2009. L’obiettivo è raccogliere in un anno 1 milione di firme al fine di chiedere alle istituzioni europee, in particolare alla Commissione, di introdurre un reddito di base incondizionato su scala europea. Questo strumento dovrebbe assicurare «a ciascuno la sussistenza e la possibilità di partecipare alla società nel quadro della sua politica economica», nonché ridurre «le disparità regionali al fine di rafforzare la coesione economica, sociale e territoriale nell’UE» (link per approfondire).
Ma cosa si intende con l’espressione reddito di base incondizionato? Un chiarimento terminologico è necessario, dal momento che in Italia tale misura viene spesso confusa con il c.d. reddito di cittadinanza approvato nel 2019. Philippe Van Parijs, uno degli studiosi che più si è occupato di reddito di base, o basic income in inglese, lo definisce «un reddito regolare pagato in denaro a ogni singolo membro di una società, indipendentemente da altre entrate e senza vincoli»[1]. Esso si caratterizza dunque per il suo essere incondizionato, differenziandosi dal reddito di cittadinanza all’italiana che subordina la sua ricezione ad una serie di condizioni, tra cui la verifica della condizione economica del soggetto richiedente e la sua disponibilità ad accettare il lavoro che verrà eventualmente offerto.
L’idea di garantire un reddito a tutti i cittadini di una comunità a prescindere dalla loro condizione economica e dalla loro occupazione ha origini che vengono fatte risalire all’Utopia di Tommaso Moro. Nel tempo è stata poi sviluppata da studiosi come Thomas Paine, Bertrand Russell e Milton Friedman ed è stata appoggiata e criticata da vari punti di vista. Il basic income è stato sostenuto come strumento in grado di: massimizzare la libertà di scelta degli individui; assicurare il diritto di ognuno a condurre una vita dignitosa; liberare il tempo dalla supremazia del lavoro. È stato invece osteggiato per i suoi costi, ritenuti insostenibili nel lungo periodo, nonché per la sua presunta mancanza di etica, in quanto, essendo garantito senza contropartite, favorirebbe il free riding, ovverosia la possibilità per alcuni di sfruttare il lavoro degli altri senza contribuire al pagamento del reddito stesso.

Il reddito di base ha recentemente ricevuto nuova attenzione con l’esacerbarsi della crisi economica dovuta alla pandemia. Il lavoro, quando c’è, è infatti diventato precario per una platea sempre crescente di cittadini che si trovano a dover affrontare la crisi economico-sanitaria senza poter fare affidamento su una fonte di reddito stabile. Il reddito di base andrebbe dunque ad offrire una rete di salvataggio assicurata per tutti coloro che si trovano o potrebbero trovarsi in condizioni di difficoltà economica. Inoltre, il basic income può portare a concepire un lavoro fondato sul valore per la società nel suo complesso e non strettamente sul salario, ed un’economia non più basata sulla ricerca del profitto (di pochi) ad ogni costo, bensì sulla ricerca del massimo benessere per tutti.
La proposta del basic income non è infatti legata strettamente alla risoluzione dell’attuale crisi. Quella che stiamo vivendo è già la seconda recessione che colpisce l’economia mondiale in poco più di 10 anni e vi sono almeno due fattori principali che fanno prevedere che non sarà l’ultima. Il primo è che le cause strutturali che hanno portato alla crisi del 2009 – eccessiva finanziarizzazione dell’economia con conseguenti speculazioni e “bolle”, aumento globale delle diseguaglianze – sono tuttora irrisolti. Il secondo è il tasso di incidenza delle attività umane sull’ambiente naturale e le conseguenze nefaste che i conseguenti cambiamenti climatici avranno su diversi ambiti delle società umane. Il reddito di base non va dunque interpretato come la panacea di tutti i mali, ma va inserito in un contesto di più generale rinnovamento del sistema economico vigente. Senza tale cambiamento anche il basic income, per quanto in grado di migliorare la condizione delle fasce più colpite dagli effetti negativi di tale sistema, si limiterebbe ad essere una misura assistenziale incapace di incidere sugli elementi strutturali che creano povertà, precarietà e diseguaglianze.

Quest’ultima osservazione si lega alla critica basata sulla scarsa sostenibilità economica della manovra. Finanziare un reddito di base è un’impresa indubbiamente onerosa per le casse statali, irrealizzabile senza un sistema di tassazione che sia fortemente proporzionale e che colpisca soprattutto i patrimoni legati alle rendite ed alle speculazioni finanziare, oggi sottoposti ad una tassazione bassissima. Ad ogni modo, il basic income non è un’utopia economicamente irrealizzabile, basti pensare che da metà anni ‘70 esiste in Alaska uno schema di reddito di base e che anche in Iran è stato finanziato per alcuni anni uno schema simile, prima di essere depotenziato, ma non smantellato, sotto la pressione economica imposta dalle sanzioni internazionali.
In ultima istanza, il reddito di base è uno strumento molto costoso, tuttavia se pensiamo a quello che viene speso annualmente solo nel nostro paese per spese militari, grandi progetti mai realizzati – ma finanziati – ed evasione fiscale, l’impressione è che i soldi ci siano. Ciò che serve è la volontà politica di spenderli. Fuori dall’Italia le sperimentazioni e le prime implementazioni parziali simili ad un reddito di base conoscono in questo periodo un’importante crescita (qui una mappa delle sperimentazioni: link). L’iniziativa dei cittadini europei è in questo senso un segnale importante: se dall’alto manca la volontà, è dal basso che le cose si possono smuovere. A prescindere dal successo della raccolta firme, questa proposta deve essere per le istituzioni europee un’occasione per ripensare il proprio ruolo e rilanciare il cosiddetto pilastro sociale, finora “dimenticato” a favore del rigore economico.