
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un sistema sanitario è l’insieme delle organizzazioni, delle istituzioni, delle risorse dedicate alla produzione di “azioni sanitarie”, ossia ogni sforzo nel campo dell’assistenza alle persone, in quello della sanità pubblica o in quello delle iniziative intersettoriali, il cui scopo primario è il miglioramento della salute di una popolazione. I diversi sistemi sanitari nazionali sono formati dunque da un complesso insieme di settori differenti e, come è noto, ogni Stato organizza il proprio servizio a seconda delle proprie caratteristiche sociali, culturali e demografiche.
La pandemia causata da SARS-CoV-2, iniziata ormai più di un anno fa, ha messo sotto un’estrema pressione i sistemi sanitari di tutto il globo, smascherandone i punti deboli e le carenze, ma evidenziandone anche pregi e punti di forza. Sono stati versati fiumi di inchiostro, spesso anche a sproposito, relativamente alle modalità con cui i sistemi sanitari avrebbero dovuto meglio prepararsi di fronte a questo prevedibile evento. E’ però curioso notare come, al contrario, siano state estremamente scarse le analisi delle conseguenze di una governance sanitaria frammentata, fautrice di finanziamenti di programmi isolati, incapace di collegare e integrare i diversi settori già esistenti che compongono un sistema nella sua estrema complessità.

In un recente articolo pubblicato dal Lancet vengono analizzate le reazioni dei diversi sistemi sanitari nazionali agli eventi dell’ultimo anno, cercando di individuare quale modello abbia meglio resistito allo stress subìto: esiste un “miglior” sistema sanitario, se analizzato sotto la lente della pandemia? Secondo gli autori dello studio, la soluzione vincente è stata quella che ha affiancato politiche di sicurezza sanitaria globale (Global Health Security, GHS), a quelle di copertura sanitaria universale (Universal Health Coverage, UHC).
Le cosiddette “politiche di sicurezza sanitaria globale” sono incentrate sulla prevenzione, la rilevazione e la risposta alle minacce alla salute pubblica, in particolare proteggendo la popolazione da minacce di natura infettiva. Esse sono desunte dalle “International Health Regulations” dell’OMS, e forniscono un quadro giuridico che definisce i diritti e gli obblighi degli Stati nella gestione di eventi ed emergenze di salute pubblica, con particolare riguardo alle procedure di segnalazione, sorveglianza, comunicazione del rischio e coordinamento (fondamento delle politiche di GHS).
La “copertura sanitaria universale”, promossa dall’Assemblea delle Nazioni Unite con una risoluzione del 6 dicembre 2012, ha come obiettivo il garantire alla totalità della popolazione l’accesso a farmaci essenziali e all’insieme dei servizi di prevenzione, cura e riabilitazione, definiti da ciascuna nazione. Questi, al contempo, devono essere sicuri, economici, efficaci e di qualità. In particolare, per l’attuazione di una reale copertura universale, è sottolineata la necessità che la fruizione di questi servizi non esponga i pazienti – in particolare le fasce di popolazione più povere, emarginate e vulnerabili – a sofferenza economica.
L’OMS ha assegnato ad entrambe le strategie alto livello di priorità all’interno dell’ultimo General Programme of Work, tuttavia – anche a causa degli scarsi investimenti effettuati in materia di sanità pubblica dai 193 Paesi aderenti durante gli ultimi decenni – è capitato frequentemente che le due strategie fossero disallineate, producendo gravi ripercussioni sulla salute delle popolazioni. Questo fenomeno si è verificato ad esempio in Africa Occidentale nel corso dell’epidemia di Ebola del 2014/16. In questo caso furono investiti ingenti fondi per aumentare le capacità diagnostiche, potenziando i laboratori, sottraendo al contempo risorse ai servizi sanitari di base, con la conseguente rilevazione, negli anni seguenti, di un numero di morti maggiore per malaria non trattata che per Ebola.

Gli autori del citato articolo pubblicato su Lancet passano in rassegna diversi modelli di sistemi sanitari e le rispettive risposte all’emergenza COVID-19, alla luce degli investimenti in strategie GHS piuttosto che UHC. Secondo questa schematizzazione si possono suddividere i sistemi sanitari in tre gruppi: quelli che finanziano maggiormente la sicurezza sanitaria globale, quelli che spendono maggiormente per garantire una copertura sanitaria universale, quelli che distribuiscono i fondi in maniera bilanciata.
Nel primo gruppo rientrano gli USA: pur risultando in cima agli indici di protezione del Global Health Security Index, che misura la capacità di protezione della sicurezza sanitaria di un paese, hanno riportato un numero di contagi e morti tra i più alti in assoluto. Gli autori giustificano questo fenomeno principalmente con la frammentazione e la disorganizzazione della sanità americana, divisa nei sistemi regolati dalle leggi dei diversi stati che compongono la repubblica federale. Questo avrebbe condotto a una risposta tardiva e confusa alla pandemia, indebolita anche dalla mancanza di un accesso universale alle cure.
D’altro canto, i paesi con sistemi sanitari a forte vocazione universalistica che però negli anni non hanno implementato le misure di sicurezza sanitaria, hanno avuto difficoltà nella gestione della pandemia. Tra questi una menzione speciale all’interno dello studio è evidenziata per una regione italiana, la Lombardia, in cui le funzioni di coordinamento e gestione dei test diagnostici o dell’approvvigionamento di forniture, almeno nelle fasi iniziali, è stata inadeguata. Anche in Gran Bretagna, le scarse capacità di coordinamento, sorveglianza, comunicazione del rischio non hanno permesso una gestione ottimale dell’emergenza.
Come era prevedibile la virtù sta nel mezzo: i paesi che hanno equilibrato gli investimenti in sicurezza sanitaria e accesso universale alle cure si sono dimostrati più capaci nel far fronte all’emergenza. I paesi che hanno registrato le migliori performance, espresse dal minor numero di decessi per milione di abitanti, sono stati Taiwan (0,1), Thailandia (1), Singapore (5), Vietnam (19) e Corea del Sud (28). Rilevando lo stesso dato in Italia, potremmo registrare 1583 decessi per milione di abitanti, mentre in USA 1507.
I paesi asiatici appena elencati, anche grazie alla precedente esperienza di epidemia di SARS nel 2002/03, sono riusciti a realizzare in brevissimo tempo e con successo la strategia delle 3 T: Testing, Tracing, Treating, ovvero la rapida identificazione dei casi, il preciso e tempestivo tracciamento dei contatti, eseguito anche grazie all’uso di dispositivi digitali e con l’intervento di folte schiere di personale dedicato, il trattamento dei soggetti fondato su una precoce presa in carico a domicilio, elemento che ha ridotto drasticamente diffusione e mortalità.
Viene descritta l’esperienza di Kerala, Stato dell’India meridionale, dove il coinvolgimento massiccio di operatori sanitari per l’attività di diagnosi precoce e di tracciamento è stato affiancato da una efficace attività di protezione sociale a favore dei poveri e dei migranti. Gli autori citano anche l’esempio italiano del Veneto dove, durante la prima ondata della pandemia, la possibilità di effettuare test diagnostici, l’applicazione di efficaci misure di isolamento e il coordinamento della sanità territoriale con le strutture ospedaliere, hanno determinato una risposta soddisfacente secondo i parametri presi in esame.
Storpiando la celebre formula di Leibniz possiamo quindi affermare che, secondo questo studio, noi decisamente non viviamo nel migliore dei sistemi sanitari possibili, mentre i nostri vicini veneti hanno lavorato meglio per raggiungere questo obiettivo. Ostregheta!