
Il ruffiano, comunemente conosciuto come “leccaculo”, è una specie presente in ogni agglomerato umano che si rispetti. Egli, nella maggior parte dei casi, non è tale per necessità bensì per propensione naturale sin dalla tenera età; l’abilità viene poi sviluppata con esercizio costante e continuativo, fino ad arrivare alle derive con cui tutti noi abbiamo avuto a che fare nella nostra esistenza.
Le varie età della vita sono contraddistinte da diverse “sottomissioni”: da bambini si è “cocchi “di genitori e docenti, da studenti dei propri professori e nel mondo del lavoro dei propri capi. Puntuali poi arrivano gratificazioni e promozioni, sempre con un orecchio proteso al fine di evitare insidie dai propri “simili”. Non c’è proprio mai pace, nemmeno tra gli ulivi.
Un po’ di storia. Si dice che il mestiere più antico del mondo sia vendere le proprie prestazioni sessuali in cambio di denaro. Vero o falso?
La frase, seppur vera, andrebbe aggiornata: i due lavori più antichi del mondo sono la prostituta e il ruffiano. Prova di quanto affermo è un racconto, tramandatoci da Svetonio, riguardante una corsa di quadrighe ai giochi di Olimpia del 67 d.C.
Nerone, dopo essere giunto in Grecia con una corte di cinquemila persone, sarebbe riuscito a vincere la corsa dei cavalli pur essendo stato sbalzato giù dal cocchio imperiale, grazie agli avversari che apposta si sarebbero fermati per farlo ritornare in sella.
Dante invece, nei confronti degli adulatori, ha un atteggiamento di profondo disprezzo: li colloca infatti nell’ottavo cerchio, frustati dai diavoli e ricoperti nello sterco. Come infatti costoro avevano leccato le terga in vita, nell’Inferno si ritrovano ricoperti dal prodotto di quest’ ultime.
Nei secoli successivi purtroppo la piaga delle colate di bava, soprattutto in Italia, non si placò: mentre infatti in Francia Étienne de la Boétie, nel 1549, si domandava come fosse possibile «che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere rispetto a quello che essi gli accordano, che ha la capacità di nuocer loro solo finché son disposti a tollerarlo», in Italia Niccolò Machiavelli scriveva “Il Principe” dedicandolo a Lorenzo il Magnifico, opera che nella lettera dedicatoria presenta una lusinga abnorme al Principe di Firenze: «Opera indegna della Magnificenza vostra».

Altra figura paradigmatica del ruffianesimo è Giulio Alberoni, prelato piacentino, che era stato mandato dal duca di Parma Francesco Farnese in missione presso Luigi Giuseppe di Borbone, solito ricevere i suoi ospiti mentre espletava le proprie funzioni fisiologiche. Senza alcun tipo di disagio invece l’Alberoni intrattenne con battute e lusinghe varie colui che lo aveva accolto, e, quando fu il momento per il duca di Vendome di alzarsi dal vaso da notte, lo lusingò dicendogli: «Oh, culo d’angelo» e correndo a baciarglielo.
In anni più recenti, mirabile è il ritratto del ruffiano realizzato da Robert Musil nel pamphlet intitolato “Il lecchino”: viene infatti descritto come una persona “amabile”, dato anche il diminutivo. Il lecca infatti “non esiste nemmeno”. È una persona «senza un’opinione propria, ma sempre con quella dei suoi superiori», e, se abile, «in grado pure di anticiparla». Secondo Musil esisterebbero addirittura «i lecchini della coerenza e della franchezza». Forse ha anticipato i tempi.
Sintomatologia? La “malattia” è chiaramente diagnosticabile: è facile, infatti, non appena si entra a far parte di un qualsiasi agglomerato umano, identificare frasi, gesti e comportamenti sintomatici di una tendenza alla ruffianeria. La ruffianeria “seriale” ha sintomi ben precisi: assoluta accondiscendenza al volere della “figura dominante”, che si manifesta in ogni ambito della vita: sia nel lavoro, sia in famiglia, sia con gli amici; una assoluta inconsistenza di opinione che porta a far propria quella del capo, un estremo desiderio di mettersi in mostra e infine un innato spirito di sacrificio, perché, bisogna dirlo chiaramente, leccare non è per tutti.
Come in tutte le cose però non esiste solamente il bianco o il nero: esiste infatti anche una variante della malattia, la cosiddetta ruffianeria “per sopravvivenza”. Quest’ultima, per nostra fortuna, è la più comune. A chi infatti non è mai capitato di ridere a una battuta brutta, sacrificarsi per uno straordinario ogni tanto oppure di fare un complimento al capo, giusto per avere il permesso nel momento del bisogno o per una più generale convenienza del momento?
Credo a nessuno. Come uscirne? Trovare risposta a questo interrogativo è molto complicato, perché il lecchino seriale prova immenso piacere nell’essere servile e la speranza di una ricompensa fa sì che difficilmente si possa guarire dalla malattia.

Una flebile speranza però c’è, ed è il fallimento, in assoluto la miglior medicina, perché porta ad aprire gli occhi sull’inutilità dei sacrifici fatti. Altra possibilità è che il lecchino seriale venga scavalcato da qualcuno più servile di lui, ricorrenza tipica in moltissimi ambiti lavorativi.
Se invece, dopo aver riso a una battuta brutta del vostro capo o dopo aver ottenuto un permesso con qualche favore, non vi sentite a posto con la coscienza, ho solo un consiglio da darvi: quello di tenere a mente quanto affermava l’abile diplomatico francese Talleyrand ai suoi collaboratori: «Sortout pas trop de zèle», «Soprattutto non troppo zelo». Potrebbe infatti nuocere gravemente alla vostra reputazione.