
“
Trial and error”, “fail fast, learn faster”, “learning by doing”, chi più ne ha, più ne metta. Sono sicura che molti di voi avranno letto The Lean Startup o qualche altra Bibbia del caso come Running Lean o Rework. O sicuramente li avrete visti in bella mostra su uno scaffale/scrivania/coworking space se come me avete fatto uno stage in una qualsiasi startup. Perchè diciamocelo, è sempre più trendy dire che hai fondato una startup, ma quanti di questi progetti falliscono in meno di un anno? Ne parlavo ieri con un mio collega che mi diceva:
«Ah ma questa è la grande illusione della vostra generazione: pensare di poter risolvere macro-problemi socio-economici e ambientali così complessi in modo troppo semplicistico, con una startup. Ma quante di queste startup falliscono? Quante sono un vero successo?».

Dal mio punto di vista, a 24 anni, penso sia importante rischiare il tutto per tutto. No, riformulo: penso sia importante rischiare il tutto per una causa, un sogno, un progetto in cui crediamo profondamente e che potrebbe potenzialmente avere un impatto positivo a livello sociale, economico o ambientale.
Idealismo, utopia, semplicismo – potete criticare le startup quanto volete, ma quando si tratta di green startup, eco-startup o progetti che tentano di creare un prototipo concreto per implementare i Sustainable Development Goals (SDGs), bisogna riconoscere il coraggio degli imprenditori (in genere molto giovani) che si lanciano in questi esperimenti mettendosi davvero alla prova.
Per questo quando ho avuto l’occasione di conoscere Moh e Pearl, due mie coetanee tailandesi co-fondatrici della startup Happy Grocers, ci siamo subito trovate sulla stessa lunghezza d’onda. Abbiamo deciso di rifugiarci in uno dei caffè relativamente hipster di Bangkok, berci un frappè e parlare per due ore di fila del futuro dell’agricoltura sostenibile in Thailandia.
Moh e Pearl si sono appena laureate in Global Studies and Social Entrepreneurship alla Thammasat University e io al momento sto facendo ricerca per il mio dottorato al dipartimento interdisciplinare di Environment, Development and Sustainability alla Chulalongkorn University di Bangkok. La nostra formazione accademica è in campi diversi ma la vision è molto simile e basata sui tre principi della sostenibilità o sulle “3 P”: people, planet, profit.

Come connettere questi tre elementi in modo resiliente e sostenibile a Bangkok, in relazione ai sistemi alimentari urbani, peri-urbani e rurali? Come possiamo collegare queste tre realtà, che molto spesso non vengono connesse, a causa di politiche regionali o municipali che lavorano in silo e di una governance ancora troppo frammentata? Questa conversazione non si è fermata in quel caffè ma è poi continuata con un respiro ancora più ampio quando ho conosciuto gli altri membri del team di Happy Grocers: Dew, Gino, Sam e Koh.

“Non si diventa vecchi per avere vissuto un certo numero di anni, si diventa vecchi per aver abbandonato i propri ideali. Gli anni rendono la pelle rugosa; rinunciare ai propri ideali rende rugosa l’anima”.
Douglas MacArthur

Happy Grocers è una food eco-startup che non solo connette produttori e consumatori direttamente, ma ha un sito internet tramite il quale si può ordinare frutta e verdura biologica a Bangkok. Al momento, Happy Grocers ha vinto il premio come miglior startup 2020 a livello nazionale in Thailandia, per la sua strategia post-Covid 19 così innovativa. Ma è solo l’inizio. La vision del team è di creare un movimento di sensibilizzazione e informazione, per ridisegnare sistemi alimentari equi e sostenibili dal basso, con un processo bottom-up a Bangkok e nelle regioni limitrofe. La chiave per raggiungere questo obiettivo? Educare i giovani, i consumatori e i Bangkokiani in generale, fornendo informazioni trasparenti sulla provenienza del cibo che consumano quotidianamente.


