Braccio di Georgina Orellano con tatuaggio visibile. Scritta in maiuscolo: p*ta. In sovrapposizione discorso della stessa Orellano sulla riappropriazione linguistica.

Fare cose con le parole: l’esempio di alcunǝ sex workers

Cosa vuol dire riappropriarsi di un termine e perché lo si fa.

Linguaggio e pensiero sono intrinsecamente legati. Attraverso il linguaggio, il nostro sistema cognitivo categorizza e viene a conoscere il mondo. Ma il linguaggio è un sistema variabile e aperto, in grado di riflettere e agire sul reale, in modo accessibile a chi ci circonda.

La tesi di Sapir-Whorf sostiene che il comprendere il reale in mondo simile agli altri dipende proprio dal fatto che con loro condividiamo in senso lato un sistema linguistico. Seguendo questa tesi, la relazione tra cognizione e linguaggio non è unidirezionale, ma bidirezionale. Ovvero, il modo in cui parliamo influenza il modo in cui pensiamo. Infatti, il nostro sistema cognitivo ha potenzialità e limitazioni intrinseche, ma essendo plastico, è soggetto alla forza plasmante del linguaggio. Ha quindi senso riflettere sulle parole che usiamo, data la portata epistemologica che esse hanno sul modo in cui pensiamo, agiamo e interagiamo nel mondo.

In ambienti in cui il rispetto delle minoranze ha un qualche valore – in particolare online – la tesi non è solamente riconosciuta ma anche applicata in senso pratico. Di fatto evitiamo di usare espressioni linguistiche apprese per esposizione e che abbiamo capito – chi prima e chi dopo – essere offensive in quanto tradizionalmente associate a stereotipi e atteggiamenti discriminatori, ovvero gli slur

Non utilizzare gli slur è fondamentale per opporsi alle discriminazioni. Infatti, data la nostra architettura mentale, nel momento in cui si sente o legge una parola, essa diventa più facilmente accessibile e il suo riutilizzo diventa più immediato, in modo puramente involontario. Ciò è il risultato di quello che viene definito priming e diventa problematico quando si tratta di linguaggio discriminatorio. Esso è in primo luogo dannoso per chi lo subisce, e, in seconda battuta,  per chi lo usa, nel momento in cui non ci sia intenzione attiva di discriminare. 

In quest’ottica, come si spiegano i fenomeni di riappropriazione linguistica? Ovvero, perché e in che modo alcune minoranze decidono di usare gli slur di cui sono state e sono vittime?

La professoressa Claudia Bianchi riporta in Journal of Pragmatics i motivi per cui diverse comunità hanno deciso di usare la riappropriazione linguistica come atto politico comune. È il caso di fr*cio per la comunità lgbtq+, ni**a per la comunità afroamericana e putt*na  per quella dellǝ sex workers.

Innanzitutto, ci si riappropria degli slur per privare chi discrimina di un potente strumento di offesa, per neutralizzare cioè lo slur stesso. Utilizzare consapevolmente lo slur permette poi ai membri della comunità discriminata di consolidare il proprio gruppo di appartenenza definendone i limiti. In questi casi solo ai membri è concesso di usare termini discriminatori, fatta eccezione per particolari contesti e parlanti selezionati. Riappropriarsi degli slur consiste anche nel riconoscere una storia di oppressione, non per identificarsi nel ruolo di vittima, ma per sfruttarne al meglio il potere sovversivo. Se è vero che il linguaggio può cambiare il nostro modo di pensare, allora è bene usarlo per cambiare ciò che non ci va. Alcune associazioni di sex workers lo stanno facendo, vediamo come. 

Come riporta Giulia Zollino nel saggio Sex work is work, il giudizio sul lavoro sessuale è multiplo quanto è multiplo il lavoro sessuale stesso. Esso comprende prestazioni online e offline, indoor e outdoor, e si dirama in un largo spettro di pratiche. Di fronte a ciò, l’opinione pubblica tende a schierarsi in linea con tre diverse prospettive. La prima vede il lavoro sessuale come oppressione patriarcale (da cui va cercata l’emancipazione). La seconda concepisce il lavoro sessuale come atto emancipatorio (chi fa sex work detiene un potere sovversivo nei confronti delle strutture patriarcali). Per l’ultima il lavoro sessuale è semplicemente un lavoro ed esige una protezione oggi assente dei diritti di chi lavora. La prima prospettiva pensa allǝ sex workers come vittime, la seconda lǝ dipinge come rivoluzionariǝ emancipatǝ, la terza come persone che svolgono un lavoro.

protesta di sex workers a Berlino. In sovrapposizione discorso della stessa Orellano sulla riappropriazione linguistica.
Parole di Georgina Orellano, segretaria generale di AMMAR, come riportate da Giulia Zollino in Sex work is work. Sovrapposizione di parole e immagini di Greta Gandolfi. Immagine originale di Carys Huws.

Se, da un lato, è largamente riconosciuto che il termine putt*na serve a stigmatizzare lǝ sex workers, le ragioni di riappropriazione variano a seconda della prospettiva. Per alcune persone, l’utilizzo del termine riabilita uno dei significati antichi della parola, legato alla sacralità femminile (in linea con la prima prospettiva), per altre è una rivendicazione orgogliosa (in linea con la seconda, e a volte la terza). Riporto qui un passo del manifesto francese Femminismo puttana:

« Quando diciamo che siamo delle puttane e che ne siamo fiere, non portiamo l’attenzione sulle condizioni di esercizio del lavoro sessuale o sui nostri sentimenti riguardo a questo. Qualunque siano le nostre esperienze, buono o cattive, sia che amiamo sia che detestiamo il nostro lavoro, non dobbiamo giustificarcene. Quello che noi diciamo tramite questo messaggio di fierezza, è che mai ci lasceremo ridurre dalla vergogna o dal silenzio, perché […] lo stigma della puttana ha anche come scopo di impedirci di rivelare quello che sappiamo sui rapporti di genere attraverso la nostra esperienza di confronto quotidiano con gli uomini.»

Per esperienza di tuttǝ, sappiamo che lo stesso insulto si estende per associazione a qualunque gesto di autodeterminazione, trasgressione e ribellione di chi non è o si ritiene conforme al canone maschile dominante. E il lavoro di manipolazione linguistica messo in atto dallǝ sex workers femministǝ ha potenziale sovversivo nei confronti di chiunque si sia mai sentitǝ dare della putt*na. È utile allora interrogarsi sul senso pragmatico e politico dei termini, caso per caso. Come regola generale è cruciale chiamare le persone come vogliono essere chiamate, qualunque sia il motivo.

Immagine di copertina: Parole di Georgina Orellano, segretaria generale di AMMAR, come riportate da Giulia Zollino in Sex work is work. Sovrapposizione di parole e immagini di Greta Gandolfi. Immagine originale di Nora Lenzano.

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