
I temi affrontati e il modo in cui sceglie di rappresentarli rendono Lars Von Trier uno degli autori più controversi del cinema contemporaneo. Ogni suo film provoca reazioni antitetiche nella critica e nel pubblico. Lo stesso è accaduto per la sua ultima fatica, uscita nel 2018 e intitolata The House that Jack Built (in italiano La casa di Jack): presentata a Cannes, è stata accolta sia da dieci minuti di standing ovation sia da spettatori che hanno lasciato la sala prima del termine della proiezione.

Banalmente pubblicizzato come la storia di un serial killer, il film è, in realtà, una riflessione estetica sulla natura dell’arte. Due voci fuori campo su schermo nero introducono la storia: il protagonista, Jack (Matt Dillon), inizia a raccontare i propri crimini a Verge (Bruno Ganz), mentre i due intraprendono un viaggio la cui natura non ci è subito svelata. Il film è strutturato in cinque atti, ciascuno corrispondente a un omicidio (o “incidente”), e un epilogo, nel quale viene confermata l’idea – suggerita piuttosto esplicitamente allo spettatore in diversi punti – che il viaggio sia una catabasi (una discesa nell’oltretomba): Jack, rappresentato come un Dante perverso, viene guidato da Verge, ossia Virgilio, al suo posto nell’inferno.
Stilisticamente, l’opera non si discosta molto dalle altre produzioni del regista: la maggior parte del film è caratterizzato dall’uso della camera a mano e da un montaggio quasi documentaristico, con tagli netti ed evidenti, salvo per poche sequenze più curate tecnicamente. Oltre a ciò – e qui sta la differenza con i lavori precedenti – i diversi atti del film sono intervallati da montaggi con immagini e filmati di varia natura, volti a dare dei riferimenti visivi ai dialoghi tra i due personaggi, che qui rimangono fuori campo.
Il fulcro del film si trova in questi scambi tra Jack e Verge. Jack giustifica i propri omicidi in virtù di una sua concezione dell’arte. A questo fine, si lancia in diverse argomentazioni volte a illustrare il suo punto di vista, proponendo una visione artistica incentrata sulla decadenza, sul dolore e sulla violenza; Verge, invece, oppone una prospettiva fondata sull’amore e sulla bellezza.
Questa contrapposizione ritorna più volte per tutto il film, ma è illustrata molto chiaramente nell’intermezzo tra il quarto e il quinto atto. Jack sostiene che l’arte trova la sua piena realizzazione nella decadenza dei materiali, perfettamente compresa da teorici come l’architetto nazista Albert Speer, che formulò la teoria del valore delle rovine: ispirandosi ai resti delle architetture classiche, i suoi edifici vennero costruiti con materiali resistenti e fragili, per produrre delle rovine che sarebbero risultate gloriose ai posteri.
Ciò non vale solo per l’uomo, ma per tutta la natura. Jack traccia un parallelismo tra l’arte umana ed eventi naturali, come i processi che preparano l’uva alla fermentazione: è il decadimento del materiale che lo rende adatto a essere elevato a vino. Più in generale, è la decadenza che nobilita la materia, rendendola arte. Da questo punto di vista, ogni cosa è predisposta a diventare arte e, pur non essendo disposti a riconoscerlo, tutti gli uomini sono inconsciamente degli artisti, oltre che i creatori delle icone che rappresentano gli atti più atroci della storia: l’esempio lampante è fornito dalle dittature del Novecento e dai massacri che hanno caratterizzato quel secolo.
Verge, che fino a quel momento aveva risposto alle parole di Jack con sarcasmo o noia, non riesce a trattenersi dal definirlo rabbiosamente «Anticristo» e la «persona più assolutamente depravata» che abbia mai scortato. Non vede nulla di artistico in queste atrocità: per lui, il principio indubitabile e indiscutibile dell’arte è l’amore. Le grandi opere sono delle isole di luce in un mare di oscurità. Egli prende a esempio la quercia di Goethe, che si ergeva all’interno del campo di Buchenwald: fu arte ciò che venne prodotto dalla grande mente dello scrittore che riposò sotto la quercia, non le atrocità compiute dai nazisti. La quercia, simbolo dell’autentica arte, è in contrasto con ciò che la circonda, che non è altro che violenza e immoralità.
Per Jack, Verge è un moralista che reprime l’arte, imponendole ingiustificatamente dei vincoli. Dal canto suo, Verge non è un interlocutore molto loquace, non prendendosi la briga di dimostrare a Jack di essere nel torto – dopotutto, l’assassino è già condannato – e mantenendo un atteggiamento di superiorità.

In ogni caso, essendo questa un’opera cinematografica, non sono le parole a dover dimostrare che Jack è nel torto, ma le immagini. Sono i fatti presentati nella sequenza finale a rifiutare la sua prospettiva, rivelando anche le idee del regista stesso sull’arte e sul proprio lavoro. Da qui si evince il primo sottotesto dell’intero film: l’arte non è quello che Jack crede.
Il secondo è: Lars von Trier non è Jack. Come già detto, von Trier è un regista molto controverso, in buona parte per la sua volontà di scandalizzare, ma anche a causa delle incomprensioni generate dai suoi film. Nel corso degli anni, tralasciando i fatti personali, le sue opere gli sono valse molte critiche: è stato accusato di essere un glorificatore della violenza, un misogino, un depravato – in altre parole, di vedere l’arte come Jack. Questo film è il rifiuto di tale identificazione.
La sua arte non può essere ridotta al contenuto di queste accuse. Nonostante racconti storie di dolore, conflitto, incomprensione, sopraffazione e violenza, il suo obiettivo è ispirare pietà ed empatia nei confronti dei personaggi vittime di questi eventi: il fine non è raccontare la crudeltà, ma usarla per enfatizzare altro. Non ci si deve lasciar ingannare dalla complessità delle situazioni rappresentate e dall’ambiguità data dal grande spessore psicologico dei personaggi. Anche i suoi film, alla radice, sono mossi – alcuni di più, altri di meno – da una forma d’amore.