Il silenzio dell’Università durante la pandemia

Nel corso di questa pandemia, e non solo, il mondo dell’università ha subito continui sconvolgimenti. Tuttavia, il dibattito pubblico e mediatico si è concentrato principalmente sulla scuola primaria e secondaria, trascurando le esigenze, altrettanto delicate e disattese, degli studenti universitari.

Quante volte, sfogliando i quotidiani o assistendo a servizi televisivi, ci siamo imbattuti in banchi a rotelle o in struggenti documentari sulla maturità 2020? Senza nulla togliere alla gravità dell’attuale situazione scolastica italiana, verso cui l’opinione pubblica e lo Stato sono urgentemente chiamati a far fronte, salta subito all’occhio una nota dolente: gli studenti universitari sono stati totalmente ignorati dal dibattito pubblico e mediatico della pandemia.

Così, mentre Papa Francesco devolveva preghiere per i maturandi e il Presidente del Consiglio ribadiva la sua apprensione per gli esami di terza media e di maturità, allo studente universitario non rimaneva che la rassicurante intimidazione del Presidente della Campania, Vincenzo De Luca, pronto a sferrare i lanciafiamme contro le feste di laurea.

Eppure il nostro sistema universitario, per quanto poco se ne sia detto, in questi mesi ha subito pesanti sconvolgimenti, e con esso anche le aspettative e l’iter professionale dei cosiddetti “giovani adulti”. Una generazione data in pasto alle lauree telematiche e a trafile di esami, troppo spesso posticipati per l’impossibilità di reperire materiale in tempo utile.

Fotografia di Alessia Giannini

Le biblioteche infatti, in particolar modo quelle civiche, punto di riferimento per studenti fuori sede o lontani dall’ateneo, sono rimaste chiuse per quattro mesi e, anche nel periodo di via libera a bar e locali, hanno limitato i loro servizi. Un provvedimento che ha pesantemente compromesso la ricerca d’archivio e la stesura di tesi di laurea, soprattutto in campo umanistico.

Le scadenze tuttavia non hanno subito battute d’arresto, non solo per gli appelli d’esame e per le rette, ma anche nel frastornato mondo lavorativo – con bandi di concorsi pubblici improvvisati, inflessibili nella scadenza di iscrizione, ma paradossalmente già rimandati. Per non parlare dei contratti d’affitto degli studenti fuori sede, intrappolati in città lontane da casa, tra Erasmus trascorsi in eremitaggio e voli cancellati. A queste spese si sommano poi le rate universitarie, in molti atenei rimaste invariate nonostante la riduzione dei servizi e la chiusura prolungata delle strutture.

Avviso appeso all’entrata della Biblioteca Queriniana di Brescia. Foto del 18 giugno 2020, data della (presunta) riapertura delle biblioteche in Italia dopo il lockdown di marzo.

L’allarmismo esasperato per la maturità 2020 ha così oscurato le problematiche del sistema universitario pubblico, lasciato fin da marzo in balia delle decisioni dei singoli Rettori. Si è assistito così a provvedimenti diversi da ateneo ad ateneo, senza direttive statali uniformi, dispensati sui siti delle università con tempismi spesso inadeguati. Un’arbitrarietà che ha generato grande disordine, soprattutto in situazioni delicate come le sedute di laurea, coronamento di un percorso di studi di notevole impatto psicologico per l’individuo.

Da una parte l’impossibilità di discutere in presenza di parenti, congiunti e amici, la tesi di laurea: un pro forma irrinunciabile per l’università italiana, relegato a uno schermo di Microsoft Teams o affrontato dal vivo in città altamente pandemiche, senza alcuna logica coerente con il disegno regionale. Dall’altra l’allontanamento prolungato dei giovani dal nucleo dei coetanei, parcheggiati a casa davanti a Netflix e ai tutorial di fitness, vessati da interminabili giornate di lezioni online, alla ricerca di prove esame e appunti raffazzonati su Docsity.

Aule vuote all’interno dei Poli Porta Nuova dell’Università di Pisa (25 settembre 2020)

La mancanza di centralità del disagio universitario deve generare sconcerto, e non solo tra i diretti interessati, soprattutto dal momento in cui la scuola, così come l’università, dovrebbe essere «l’istituzione che custodisce le conquiste dell’umanità come patrimonio». Di questa ideologia si era fatto interprete proprio Walter Benjamin, filosofo, teorico e letterato tedesco, riconosciuto a oggi come uno dei più acuti interpreti della modernità. Nonostante i suoi scritti risalgano alla prima metà del secolo scorso, molte dinamiche della scuola tedesca che egli problematizza risuonano di una sconcertante attualità. 

«Il docente universitario fa proprio un luogo isolato, a vantaggio di una comunità astratta. Ciò che offende è la reazione meccanica con cui l’uditorio segue le lezioni frontali – e poco cambia che siano gli insegnanti o gli studenti a parlare.»[1]

Così, proprio laddove, a detta di Benjamin, lo studente dovrebbe essere «creatore, filosofo e docente» di sé stesso, egli rimarrebbe invece pervaso da un senso del dovere oscillante tra la borsa di studio e il contributo sociale. Un sentimento calcolato, deviato da un dualismo duro e superficiale, che finirebbe per isolarlo. Come spiega infatti il filosofo: «Gli studenti sono affamati di quiete e la vita studentesca diviene un mercato provvisorio, come lo sono l’andirivieni e gli incontri nei caffè», espedienti per riempire il tempo d’attesa di una gioventù discreta, colma di riverenza verso coloro che le danno il cambio.

Foto di Walter Benjamin (1892-1940)

La rassegnazione acritica e passiva rischia di diventare l’imperativo della vita studentesca, soprattutto nel momento in cui la comunità universitaria può fare a meno del singolo, così come il singolo può fare a meno della comunità. Il contesto pandemico ha infatti favorito questo assenteismo, in mancanza anche di un confronto ravvicinato con i docenti, spesso evanescenti o ridotti a cyborg telematici.

In un sistema finalizzato al conseguimento di crediti e al mantenimento di una buona media dei voti, non sempre quella che viene delineandosi è la «comunità di competenti» a cui Benjamin aspira, bensì «una corporazione di funzionari e laureati»

Egli parla proprio di un «gioco a nascondino», entro cui due gruppi, quello dei docenti e quello degli allievi, «si sfiorerebbero reciprocamente da vicino senza però mai vedersi»[2]. Un’intesa, oramai telematica, che vedrebbe così schierati da una parte l’autorità accademica, investita di una carica ufficiale statale, e dall’altra gli studenti, oberati dall’ansia di rispettare scadenze e calendari di studio, anche nel corso di una pandemia.

L’università di oggi finisce per discostarsi sempre più dal «programma etico del nostro tempo» promosso da Benjamin; come lui stesso chiarisce infine: «questo non significa che chiunque ne possa essere rappresentante, ma che ciascuno debba prendere una posizione al riguardo». Che diventi quindi baricentro del dibattito pubblico, non competenza del solo Ministero dell’Università e della Ricerca, all’interno di una società capace di riconoscerne i disagi e valorizzarne adeguatamente gli sforzi.

[1] Walter Benjamin, La riforma della scuola in Figure dell’infanzia, educazione, letteratura e immaginario, a cura di Francesco Coppa e Martino Negri, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, p.231
[2] Walter Benjamin, La vita degli studenti  in Figure dell’infanzia, educazione, letteratura e immaginario, a cura di Francesco Coppa e Martino Negri, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, p.260
 
Immagine in copertina: fotografia di Francesca Marchionni.

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