Intervento capillare contro il modello patriarcale

L’immaginario collettivo rispetto alla donna deve trasformarsi, rimuovendo le strutture convenzionali che caratterizzano il rapporto amoroso e la funzione, anche erotica, del femminile come oggetto passivo. 

Fin dalla notte dei tempi, ci è stato insegnato che l’esperienza amorosa debba necessariamente essere abitata dalla gelosia e dal possesso e che, qualora così non fosse, si tratterebbe di un coinvolgimento menomato, insufficiente, di cui dubitare. “Il mio fidanzato non è abbastanza geloso”, “bisogna sempre dare un’occhiata al telefono del partner” frasi che rivelano come, nel senso comune, la qualità del rapporto di coppia sia dato dal grado di gelosia e/o di controllo. Vorremmo qui rifiutare qualsiasi tentativo di rintracciare amore in indebite forme di possesso, la cui espressione estrema si manifesta nell’assorbimento distorto della donna amata – o presunta tale – da parte dell’uomo e che trova la propria sintesi nella legittimazione della violenza di genere.

Per comprendere questo processo di assorbimento, uno scenario emblematico ci viene offerto da Ettore Scola che nel film Dramma della gelosia – tutti i particolari in cronaca conservando uno sguardo grottesco lungo tutta la pellicola, rappresenta un catastrofico ménage à trois fra i protagonisti: Adelaide, Oreste e Nello. Adelaide viene presentata come un’incantevole donna indipendente sia dal punto di vista economico – è una fiorista nei pressi del Cimitero del Verano a Roma – sia dai condizionamenti sociali, tanto da non soffrire, nella prima parte del film, la mancata consacrazione del proprio amore con Oreste, già sposato, entro le rigorose coordinate dell’istituto matrimoniale.

Fotogramma Dramma della gelosia – tutti i particolari in cronaca, 1970

Dopo una prima farsesca colluttazione con la moglie di Oreste, Adelaide finisce per la prima volta in ospedale e, seppur gonfia di lividi, recita una frase profetica che racchiude la distorsione patologica che talvolta si sviluppa nel rapporto amoroso: “Me può pure ammazza’ ma tanto non lo lascerò mai. Mai! Quell’omo è mio pe’ diritto de natura! Mio! Quell’omo m’è entrato nelle vene, pe levarmelo dovete caccia’ via er sangue.

Se svisceriamo questa affermazione è possibile rintracciare due componenti principali su cui soffermarsi: “quell’omo m’è entrato nelle vene, per levarmelo dovete caccià via er sangue” e “è mio pè diritto de natura”.

Per quanto riguarda la prima direttrice è indispensabile iniziare da una premessa: il movimento tradizionale di qualsiasi forma di passione è appropriativo. Quando una passione arde, come può essere il desiderio viscerale di suonare uno strumento musicale, di lavorare l’argilla, di indagare il sistema solare, ciò che governa ogni nostra azione è la mancanza. L’unica modalità idonea ad esautorare tale mancanza è proprio quella di impossessarsi, poco alla volta, del terreno in cui si avverte di voler piantare parte delle proprie radici. Se questo terreno, all’inizio, è solo un dove, un luogo esterno di affermazione della propria persona, lentamente, accede all’individualità e ne diviene parte a tutti gli effetti.

Sorge, a questo punto, un equivoco. Tale paradigma di impossessamento è stato diffusamente trasferito all’interno della delicata dinamica del rapporto amoroso: l’Uno-Uomo ingloba, poco a poco, l’Altro-donna, spogliandola della propria intima soggettività. Questo è possibile solo se si assume che la persona amata sia un individuo oggettificato e, quindi, possedibile. Sconfinare nella donna significa divenire un’entità unica con quest’ultima – in senso figurato, proprio come Oreste scivola lungo le vene di Adelaide – e comporta la negazione, senza riserve, dell’alterità autonoma che contraddistingue l’amata e che, talvolta, si rivela problematica da accettare. Eppure è proprio la natura libera e sovversiva dell’amata che deve essere protetta, diversamente sfugge il significato stesso di amore che altro non deve essere se non adorazione incondizionata dell’altrui libertà.

Illustrazione di Beatrice Perego

La mancata accettazione della libertà femminile provoca il classico sentimento angoscioso/violento dell’uomo che «vorrebbe trasformare la donna in un oggetto senza vita piuttosto che essere esposto al rischio di perderla». La volontà dell’uomo di trattenere in sè l’Altro-donna trova causa – o quantomeno qui sosteniamo questo – nel modello patriarcale, che ha imposto l’abbattimento delle molteplici forme dell’essere donna, costretta quindi a definirsi entro il binomio donna-Eva o madre-Maria. Aver disconosciuto altri modelli di femminilità ha autorizzato il ricorso sistematico della violenza contro le donne che, secondo l’OMS, continua ad essere un problema di salute fisica e mentale che si estende ben oltre all’evento lesivo (disturbi mentali successivi e grave pregiudizio ai rapporti sociali).

Ciononostante studi statistici e percorsi argomentativi difensivi di taluni avvocati rivelano la piena operatività dell’impianto patriarcale nella nostra civiltà. Secondo una ricerca del 2018 dell’Istat, incentrata sull’immagine sociale della violenza sulle donne, circa l’8% degli intervistati ritiene accettabile che un ragazzo schiaffeggi la sua compagna perché ha flirtato con un altro uomo mentre il 18% ritiene adeguato che un uomo controlli, con regolarità, il cellulare della propria partner. L’aspetto più inquietante dello studio statistico? Il 39,3% degli intervistati sostiene che la donna, vittima di violenza sessuale, possa sottrarsi ad un rapporto sessuale non voluto. Lo scenario non muta nelle aule di tribunale, dove non sono poche le occasioni in cui le difese avanzano presunte “immunità coniugali” del coniuge violento che costringe la moglie, in evidente stato di sudditanza psicologica, a congiungimenti carnali indesiderati. E’ evidente come la civiltà patriarcale insista, con ogni mezzo, a rimarcare la funzione – anche erotica – della donna di oggetto passivo, se non addirittura, di debitrice sessuale nei confronti dell’uomo.

La seconda direttrice, richiamando il diritto di natura, obbliga una breve riflessione sulla portata storica del trinomio possesso-gelosia-onore nella nostra giustizia penale originaria. E’ bene premettere che l’Italia, come molti altri paesi (Spagna, Grecia, America Latina), secondo una corrente antropologica degli anni ’60, è un paese radicato nella “cultura dell’onore”, modello pervasivo che, nel corso degli anni, ha conferito all’attore maschile il potere-dovere di preservare la dimensione sessuale della donna.

Manifestazioni femministe per la legge sulla violenza sessuale.

La natura sessista della legislazione è lampante nei delitti per causa d’onore, oggi abrogati, previsti dal nostro codice penale: primo fra tutti, l’omicidio a causa d’onore, regolato dall’art. 587 c.p., che puniva alla pena della reclusione dai tre ai sette anni chi cagionava la morte del coniuge – che naturalmente era per la maggior parte delle ipotesi donna – «nell’atto in cui scopriva l’illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata al suo onore o della famiglia». Pena alquanto esigua se si considera che l’uxoricidio prevede la pena alla reclusione dai ventiquattro ai trenta anni. L’onore, elemento retrivo attinente alla sola sfera emozionale, giustificava un trattamento differenziato rispetto al diritto alla vita della coniuge.

O, ancora, il codice penale collocava la violenza carnale – oggi violenza sessuale – nei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, soltanto una legge del 1996 ha trasposto il reato nei delitti contro la persona. Di fronte ad un fatto di violenza sessuale, la tutela della vittima cedeva il passo ad un sedicente bene collettivo, individuato nella morale pubblica e nel buon costume. D’altra parte i giudici dell’epoca, in linea con la rappresentazione sociale della donna quale res del coniuge, non riconoscevano il reato di violenza carnale qualora fosse il marito a commetterla: le condanne, in questi casi, si esaurivano nei reati di minacce, percosse o lesioni.

Illustrazione di Beatrice Perego

Fortunatamente, l’impianto sociale attuale ha allontanato il nostro codice penale, e la relativa applicazione giurisprudenziale, da quanto illustrato fino ad ora. Sono intervenute dal 2009 ad oggi numerose riforme a tutela delle vittime della violenza di genere, ultima fra tutte la novella del Codice Rosso del 2019, ampio progetto legislativo imperniato da una logica di tutela preventiva della vittima e di recupero dell’autore del reato. L’intera cornica legislativa è stata oggetto di critiche, prima fra tutte, l’inasprimento sanzionatorio delle fattispecie di reato che sembra perseguire per lo più finalità securitarie e che non sana l’inefficacia di misure concepite in chiave meramente punitiva-stigmatizzante.

Il problema dunque rimane: è efficace il solo strumento penalistico se persiste un ritardo culturale nella collettività? Contrastare, entro questi termini, l’agghiacciante fenomeno della violenza contro le donne, significa de-storificare il problema e ridurlo all’esistenza di istinti interiori primordiali da punire, modalità che difficilmente erode le fondamenta della struttura patriarcale. Occorre aggredire le ragioni culturali di tale assetto intervenendo su vasta scala, a partire da programmi di sensibilizzazione nelle scuole, luogo di consolidamento per eccellenza delle sovrastrutture maschiliste, nei luoghi di lavoro e nei contenuti dei social media, aggirando la nuova retorica meta-femminista che dedica attenzioni a questioni di rilevanza periferica, quali il body shaming, l’accettazione della cellulite e la brandizzazione della non-ceretta. Bisogna sollecitare, in modo capillare, ciò che Rossana Rossanda designava come «il farsi concreto della Rivoluzione nel mutare delle scelte e dei valori».[1]

[1] R. Rossanda, “Anche per me: donna, persona, memoria dal 1973 al 1986”, Feltrinelli, Milano, 1987.
 
Immagine di copertina: Illustrazione di Beatrice Perego

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