
Mentre nello stato della Georgia procede il riconteggio dei voti, reclamato dal partito repubblicano allo scopo di confutare la vittoria di Joe Biden, Donald Trump è determinato a portare a termine gli ultimi oneri governativi della sua agenda presidenziale, con tragiche conseguenze per il pianeta e i suoi abitanti.
La Casa Bianca aveva già avviato dal 2019 le procedure per l’uscita dall’Accordo sul clima di Parigi del 2015, che prevede una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 26-28% entro il 2025, rispetto ai livelli del 2005. A inizio novembre 2020, un anno più tardi, gli USA sono da considerarsi ufficialmente fuori dall’accordo.
Ma non è tutto: lo scorso martedì è stato pubblicato il bando per la vendita delle licenze per la trivellazione nella regione costiera – o ‘area 1002’ – dell’ Arctic National Widlife Refuge (ANWR), in Nord Alaska. L’appello è rivolto a compagnie petrolifere e investitori interessati all’acquisto di un lease su una porzione di territorio; nel documento vengono illustrati i tratti di costa potenzialmente disponibili. Il bando ha scadenza tra un mese, il 17/12/2020.
Perché salvaguardare il Rifugio? Cos’è l’ ‘area 1002’?
Nel primo articolo dedicato a questo argomento, si è discusso a lungo sull’inestimabile valore naturalistico delle terre dell’ANWR, per la gran parte inesplorate e, laddove abitate, dimora millenaria dei popoli indigeni dei Gwich’in e degli Inupiat.

Credits: www.blm.gov
Nonostante la costa, o ‘area 1002’, sia formalmente inclusa nell’ANWR e venga pertanto classificata come area naturale protetta sotto il controllo federale (non statale), negli anni Settanta era stata promessa l’autorizzazione di operare al suo interno, poi rinviata per decenni.
A partire dal Tax Act del 2017, Trump ha aperto le porte a una serie di procedure governative volte a scardinare, ordinanza dopo ordinanza, il monopolio federale e cioè pubblico dell’ANWR, sebbene l’effettiva capienza delle riserve di petrolio e gas naturale non sia mai stata verificata con certezza.
Esiste un’opposizione politica alle trivellazioni? Chi è il ‘popolo dei caribù’?
I nativi Gwich’in, residenti nell’ANWR, definiscono la loro nazione come ‘Iizhik Gwats’an Gwandaii Goodlit’, ‘Il sacro luogo dove la vita ha inizio’.
La direttrice del loro comitato rappresentativo, lo Steering Committee, è Bernardette Demientieff; dopo anni di attivismo per la salvaguardia della patria del suo popolo, che dipende dalla fauna dell’ANWR per il proprio sostentamento, Demientieff è riuscita a portare la battaglia fino alla Casa Bianca.
Tra una riunione di Comitato e un evento virtuale per la causa dell’ANWR, sono riuscita a contattare Bernardette. Breve ma incisivo, dal tono quasi profetico, questo è il suo messaggio (tradotto dall’inglese):
«Ciò che sta accadendo nell’Artico accadrà ovunque.
La storia della nostra Creazione ci identifica come ‘il popolo dei caribù’ e ci ricorda che gli esseri umani, la terra, l’acqua e gli animali sono tutti interconnessi. Tutto ciò è frutto della Sua creazione [molte religioni indigene americane si riferiscono a un’unica entità creatrice] ed è nostro dovere proteggerlo. Ognuno di noi ha un luogo sacro che ci è stato donato affinché ce ne prendiamo cura.»
Dalle sue parole traspare un insegnamento profondo: il legame ancestrale che ci unisce alla terra e alla Natura è reale e vivo e non perderà mai la sua intensità. Il compito dell’umanità è di preservarlo ad ogni costo, impresa sempre più ardua in un mondo che si sta lentamente sgretolando, giorno dopo giorno, albero dopo albero.

Chiedo a Bernardette qual è il suo messaggio per le giovani generazioni:
«Il mio consiglio è di credere in voi stessi. La vostra voce è uno degli strumenti più potenti che avete: usatela. Istruitevi e documentatevi su tutto; non lasciate che siano le parole degli altri a svolgere la vostra ricerca.»
Ad oggi, sono numerosi i gruppi di attivismo politico e ambientale che difendono i diritti dei Gwich’in. Da Bernie Sanders al neoeletto presidente Joe Biden, sembra che qualcosa si stia finalmente muovendo, anche se non sarà facile ritirarsi dagli accordi stipulati in questi mesi dal governo Trump.
È importante ricordare, tuttavia, che non tutte le comunità indigene riconoscono la minaccia delle trivellazioni nell’Artico; alcune, in forma di corporazioni, si sono alleate con i big del petrolio, attirate dai potenziali profitti.
Quali sono i vantaggi di trivellare alla ricerca del petrolio nell’ANWR?
E quali le argomentazioni a sfavore?
I vantaggi apportati dalle trivellazioni esistono e no, non vanno unicamente all’industria.
L’Alaska vive di pesca, turismo e agricoltura, ma quasi l’85% dell’economia statale dipende dai mercati del petrolio e del gas naturale. Oltre a offrire nuovi posti di lavoro, l’industria petrolifera garantisce anche un guadagno indiretto, sotto forma di sussidio statale.

Credits: John Gaps III/AP Photo
Il surplus del guadagno totale delle compagnie, infatti, è tale che, nel 1976, è stato costituito un fondo apposito (Alaska Permanent Fund, APF): al fondo accede direttamente lo Stato dell’Alaska, che fa uso del denaro in due modi. Da una parte, distribuisce parte del fondo tra i cittadini (ottenere la cittadinanza dell’Alaska, tuttavia, non è facile); dall’altra, può impiegare il denaro in una serie di investimenti, non sempre ‘trasparenti’, molti dei quali al di fuori dello stato. Nel 2019, la somma corrispondeva a 1606$ per cittadino[1], ma l’ammontare dell’intero fondo era di 64 miliardi di dollari. Si tratta di cifre enormi, la cui gestione politica è apertamente controversa.
È altrettanto controversa la costruzione del pozzo petrolifero a fini «esplorativi» che, negli anni Ottanta, avrebbe dovuto dimostrare la presenza di petrolio nell’ANWR. A questo proposito, il New York Times ha condotto un’inchiesta nel 2019, secondo la quale gli esiti dell’ispezione petrolifera non sarebbero stati soddisfacenti.
Anche ammesso (ma poco probabile, stando alle testimonianze riportate dal Times) che l’ANWR nasconda ingenti quantità di petrolio, il cittadino medio dell’Alaska non ne trarrebbe particolare vantaggio. Nonostante lo Stato fornisca sussidi annuali a ogni singolo cittadino, infatti, il costo della vita in Alaska è molto alto – settimo stato nel Paese, dopo Maryland e Massachusetts – e i sussidi a tal proposito non basterebbero.

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Trivellare il suolo alla ricerca di petrolio o gas naturale ha anche effetti irreversibili, misurabili nel lungo termine; pozzi, oleodotti, navi petroliere e tutte le infrastrutture impiegate hanno un impatto enorme sull’ambiente circostante. La manutenzione, anche efficiente e costante, non è mai in grado di assicurare la prevenzione assoluta di catastrofi ambientali. Un esempio tra tutti, il disastro della Exxon-Valdez.
La baia di Prudhoe (a est dell’ANWR) è stata trasformata negli anni Settanta in un immenso stabilimento petrolifero; per trasportare il petrolio verso sud, così da poterlo imbarcare, fu costruito un oleodotto lungo quasi 1300km, da Prudhoe a Valdez. È stato proprio nei pressi dell’area portuale di Valdez che si verificò uno dei maggiori disastri del XX secolo: nel 1989, una nave petroliera di proprietà della Exxon urtò il fondale oceanico, causando la fuoriuscita di 40,9 milioni di litri di petrolio nell’acqua.
Se oggi provassimo a sollevare uno dei ciottoli presenti sulle spiagge di Valdez, troveremmo una patina nera di consistenza oleosa: si tratta del petrolio di trent’anni fa, causa della moria di piante e animali e del fallimento dell’economia marittima locale.
La posta in gioco rimane alta: il progressivo danneggiamento di un ecosistema unico nel suo genere non vale i profitti di un’industria già prospera, che continua ad arricchire i magnati dell’energia, lasciando intere comunità a dover fronteggiare disastrose conseguenze per decenni a venire.