
Un mese fa, all’apice degli scontri in Israele/Palestina, ho cercato di spiegare cosa stava succedendo, chi erano gli attori in gioco, e quali erano le cause della violenza che veniva trasmessa in diretta in tutto il mondo. Per capire veramente le origini di quella violenza, però, bisogna andare ben più in profondità. Con questo articolo parte quindi una serie che ha l’obiettivo di dare una panoramica storica del conflitto israelo-palestinese, dalle sue origini al giorno d’oggi. Per cominciare, questa prima puntata descrive come due popoli si siano trovati a contendersi lo stesso pezzo di terra, con le conseguenze che ancora oggi possiamo osservare.
Un popolo di migranti
Le radici delle tensioni che possiamo vedere oggi in Israele/Palestina hanno la loro origine verso la fine del 19esimo secolo. In questo momento, la comunità ebraica è dispersa in giro per il mondo, soprattutto in Europa, Nord Africa, e nel Medio Oriente. Gli ebrei vivono in questi posti da secoli, ma non sempre hanno vita facile – anzi, molto spesso sono discriminati e perseguitati, in particolare in Europa. Verso la fine dell‘800, la situazione peggiora drasticamente, soprattutto in alcuni paesi come Russia e Polonia. A mano a mano che le persecuzioni diventano più frequenti e più aggressive, un numero crescente di ebrei vuole emigrare.
All’inizio, le migrazioni di ebrei sono relativamente disorganizzate, ma con il passare del tempo la musica cambia. Il punto di svolta è il 1897, quando Theodor Herzl – scrittore ebreo nato e cresciuto nell’est Europa – fonda l’Organizzazione Sionista Mondiale. L’obiettivo del sionismo è quello di creare uno stato ebraico indipendente dove gli ebrei possano vivere liberi da persecuzioni. L’idea in sé non è nuova. Herzl, però, con la sua Organizzazione, riesce a gettare le basi per trasformare questa idea in una realtà.

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In tutto questo piano, resta da definire un dettaglio non da poco: dove creare questo stato? Herzl, nel suo trattato Lo stato ebraico (1896), considera due opzioni: l’Argentina o la Palestina. La prima è fertile, poco popolata, e ha un buon clima. La seconda ha un altro vantaggio: è la “patria storica” del popolo ebraico, che ha abitato lì per secoli prima di essere cacciato da potenze straniere. Sono passati ormai due millenni da quel tempo, ma la Terra Promessa è rimasta nell’immaginario ebraico, e alla fine la scelta cade sulla Palestina. Immigrati ebrei cominciano ad arrivare nella zona, comprando terreni dagli abitanti locali e prendendoli in gestione. Le basi per la fondazione dello stato di Israele sono gettate.
Gli immigrati ci rubano la terra
L’immigrazione ebraica in Palestina, però, non avviene nel vuoto. Gli ebrei non abitano in Palestina da quasi 2000 anni, e altri popoli hanno ormai preso il loro posto. A fine ‘800, gli abitanti della Palestina sono prevalentemente arabi (in maggioranza musulmani, ma con anche una presenza di cristiani). Come potete immaginare, la popolazione locale palestinese non gradisce l’influsso di stranieri. Vero, i proprietari terrieri guadagnano dalla vendita dei terreni, ma i contadini si trovano poi senza terra da coltivare. Gli immigrati, quindi, non sono visti di buon occhio dalla maggioranza dei locali.
Nei primi quindici anni del ‘900, l’immigrazione ebraica in Palestina resta limitata. Il Sultano Ottomano, che in quel periodo controlla l’area, non è un fan dell’immigrazione di massa e pone dei limiti al flusso di ebrei verso la regione. La Prima guerra mondiale, però, rimescola tutte le carte in tavola. Per un misto di interessi di guerra e connessioni personali, nel 1917 il governo del Regno Unito dichiara (in segreto) il suo supporto al movimento sionista. A guerra conclusa, con l’Impero Ottomano ormai disgregato, la Palestina passa sotto controllo dei britannici, che non fanno mistero della loro simpatia per il sionismo (l’alto commissario britannico nella regione è ebreo e sionista, e l’ebraico viene riconosciuto come lingua ufficiale in Palestina). Nel frattempo, l’immigrazione ebraica aumenta.

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Con l’aumentare dell’immigrazione ebraica, però, aumentano anche i problemi. Nella dichiarazione di supporto al sionismo nel 1917, il governo britannico aveva specificato che la creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” non avrebbe dovuto in alcun modo pregiudicare “i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina”. Negli anni ’20, i britannici provano quindi a creare una comunità integrata di arabi e palestinesi, ma questi ultimi si rifiutano di concedere troppo potere agli immigrati ebrei. E così, con il passare del tempo, la comunità palestinese e quella ebraica si allontanano sempre più tra di loro.
Cominciano gli scontri
Negli anni ’30, la situazione peggiora notevolmente. Con la diffusione del nazismo in Europa, sempre più ebrei decidono di migrare verso la Palestina. Le comunità ebraiche locali crescono, si organizzano, e mantengono buone connessioni con i governatori britannici. I palestinesi, per contro, sono sempre più frustrati dall’influsso di ebrei, ma anche dall’impotenza dei loro leader, i quali – divisi tra loro – non riescono a influenzare le scelte dei britannici. Le rivolte dei palestinesi, già cominciate nel 1921 e nel 1929, si intensificano nel 1936-39. Sia i palestinesi che i sionisti creano le loro milizie, che si scontrano tra di loro. In aggiunta, i palestinesi protestano contro il governo britannico. La tensione sale.

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A mano a mano che la situazione peggiora, i britannici cercano di capire come gestire la situazione, ma non sembrano riuscire a trovare la quadratura del cerchio. La svolta arriva nel 1939. Sotto pressione dopo una forte insurrezione palestinese (e anche desiderosi di avere buone relazioni con il mondo arabo a causa di interessi petroliferi), i britannici decidono di imporre forti limitazioni all’immigrazione ebraica in Palestina. Il momento, però, non è dei migliori. Perseguitati dal nazismo in Europa, sempre più ebrei cercano di trovare rifugio in Palestina. I britannici li respingono senza pietà, rispedendoli in Europa. Così facendo, però, il Regno Unito colleziona figuracce a livello internazionale, dove l’opinione pubblica mostra sempre più supporto per gli ebrei, perseguitati dal nazismo.
Figuracce a parte, le limitazioni imposte dai britannici arrivano troppo tardi per essere efficaci. Il movimento sionista in Palestina è ormai ben organizzato, e sempre più convinto che l’unica sicurezza per il popolo ebraico sia quella di creare uno stato indipendente dove poter vivere in pace. Se i britannici si oppongono a questo progetto, le forze di sicurezza sioniste sono pronte a combatterli. I palestinesi, dal canto loro, sono altrettanto determinati a difendere la loro terra.
La situazione, quindi, si fa sempre più difficile da gestire. Realizzando di non essere in grado di risolvere la situazione, i britannici provano a passare la patata bollente all’ONU, che propone una spartizione della Palestina in due stati, uno palestinese e uno ebraico. Gli ebrei accettano, ma i palestinesi no – la terra è la loro, e non accettano spartizioni. Fallito questo tentativo, ormai, la situazione è critica, con gruppi armati e pronti a combattere da entrambe le parti. Il 14 maggio 1948, approfittando della ritirata dei britannici dalla Palestina, il movimento sionista dichiara la nascita dello stato di Israele. Nel giro di un giorno, l’intera regione precipita nel caos – un caos che creerà le basi della situazione che possiamo osservare ancora oggi.
La storia continua tra un mese…