
Diversamente da come si è soliti pensare, Il dialetto bresciano è stata la madrelingua per eccellenza di intere generazioni, non solo la campana di un mondo circoscritto e riverso su sé stesso.
Basti pensare che la zona geografica in cui viene parlato non si limita alla sola, se pur vasta, provincia di Brescia, ma comprende anche quella di Mantova (nei comuni di Castiglione delle Stiviere, Solferino, Medole, Castel Goffredo, Casalmoro e Asola) e di Trento (nella Valle del Chiese, nelle Valli Giudicarie e in Val Rendena).
Facendo parte del gruppo delle lingue romanze, ed essendo un dialetto lombardo, il bresciano appartiene al ceppo galloitalico, il più variegato e diffuso in Italia. Le sue varianti infatti, pur preservando gli stessi tratti idiomatici, si diversificano nelle sette rispettive zone geografiche: il Lumezzanese, i dialetti della Valle Camonica, della Bassa Bresciana, del Gardesano, dell’Alto Mantovano, della Franciacorta e di Monte Isola (Lago d’Iseo).

Un’identità linguistica spesso fraintesa, la cui ruvidezza e asciuttezza non erano passate inosservate nemmeno al cultore dell’italianità per eccellenza, Dante Alighieri; proprio all’interno del De vulgari eloquentia, Dante infatti aveva definito questo dialetto «irsutum et yspidum»[1], ovvero «villoso e ispido», al punto da far sembrare le donne che lo parlavano simili a uomini. Apprezzamenti sicuramente non troppo benevoli, frutto di una conoscenza diretta, anche se non esauriente, del dialetto bresciano da parte del poeta.
Tuttavia, dietro gli stereotipi di questa parlata tanto caricaturale e grottesca, spiccano ancor oggi il gusto per la concretezza contadina, quel vitalismo e quella devozione per la terra che, soprattutto a inizio Novecento, hanno ispirato buona parte della produzione poetica bresciana.
Tra gli impavidi portavoce di questa lirica dialettale, merita una messa in luce anche il maestro bresciano Santo Zubani (1859-1935), autore dei libretti Le voci del Mella e Dai Declivi del Monte Ario, raccolte di poesie e memorie bresciane ad oggi sconosciute ai molti.

Nato nel 1859 a Dosso di Marmentino, Santo Zubani è stato maestro di scuola elementare e ha coltivato la poesia dialettale scrivendo piccoli componimenti d’occasione su foglietti sparsi, poi confluiti nelle due raccolte. Si trattava di versi giocondi e arguti, nati nell’alpestre paesaggio di Marmentino, tra le vette del Monte Guglielmo e le cascatelle del Mella, fiume il cui corso conduce alla città di Brescia:
«Per nò saì chèl che fa,
e issé per deertimènt,
tràla ‘n dialèt bressà
a mé ‘l m’è ignìt èn mènt»[2]
Questa la traduzione letterale: «A causa del non saper cosa fare/ per divertimento/ mi è venuto in mente/ di tradurlo (il viaggio a Brescia) in dialetto bresciano», tratta dal componimento Crepà dè sèt a Brèssa? (Morire di sete a Brescia?), descrizione burlesca della passeggiata domenicale di un turista nel centro storico di Brescia.
Zubani è riuscito, proprio attraverso le cadenze marmentine, a immortalare anche l’ambiente montanino della sua patria, dai soggetti che lo hanno ispirato a scrivere alla loro parlata rustica, convertendola in suono e colore. I suoi versi si sono consumati nel fatale evolversi della lingua, testimonianza secolare dell’esuberante schiettezza contadina, qui costellata da rime scorrevoli e vivaci (schema ABAB). N’è un esempio la poesia Cèsa ‘n montagna (Chiesa di montagna), dedicata a una piccola chiesetta incastonata tra i monti della Valtrompia:
«La césa, töta quanta, l’è ‘n splendùr
dè tòrse e dè candele. Sberlüsènt
da sima a fònd, l’altar, con tacc cùlùr,
che l’iride del ciél, la ghè per niènt.»[3]
«La chiesa, tutta quanta, è uno splendore
di torce e di candele. Sbrilluccicante
da cima a fondo, l’altare, con così tanti colori
che l’iride del cielo non è niente a confronto»
Un’opera che insorge «dal cuore di un generoso educatore integerrimo capace di condensare insieme tante le voci»[4]: queste le parole con cui Paolo Guerrini ha esordito nella prefazione dell’opera di Zubani, Le voci del Mella, datata il 31 luglio 1925. Il professor Guerrini ha definito infatti quest’opera «un nuovo repertorio di materiali glottologici, utili allo studio delle varianti dialettali locali»[5] e delle loro caratteristiche fonetiche e grammaticali.

Sia che si tratti di una conversazione informale che di un componimento in versi, è opportuno quindi riconoscere al dialetto la stessa dignità linguistica della “lingua istituzionale”, ovvero quella ufficializzata dalle entità statali e impartita alla comunità dei parlanti. «Una lingua è un dialetto con un esercito e una marina», così infatti il sociolinguista novecentesco Max Weinreich avrebbe confutato la differenza tra “lingua” e “dialetto”, chiarendone l’arbitrarietà: una differenza imputabile solo a fattori extra-linguistici, politici e sociali, che col tempo ne avrebbero influenzato la percezione a svantaggio del dialetto.
Il territorio bresciano custodisce un patrimonio culturale ancora inedito, confinato in gran parte proprio nella lingua. E quale lingua meglio del dialetto valtrumplino avrebbe potuto immortalare la “piccola patria” di Marmentino? Spetta finalmente alle voci di Zubani e della sua famiglia restituircene testimonianza.