
Il Covid-19 viene solitamente considerato un evento eccezionale nella sua drammaticità: un incidente di percorso, una falla del sistema, un fenomeno catastrofico casuale. La maggior parte delle persone condivide tale prospettiva e non vede l’ora che tutto ciò finisca per tornare alla normalità. In fondo, è un punto di vista positivo, che guarda alla pandemia come un grande nemico globale da sconfiggere, così da ricominciare a vivere, lasciandosi alle spalle questa nefasta parentesi il prima possibile. Vorremmo pensarla così anche noi, ma le cose non stanno in questo modo. L’attuale pandemia, infatti, è una conseguenza diretta dei meccanismi della nostra società su scala mondiale, caratterizzati dalla perdita di equilibrio tra le dinamiche umane e i processi naturali. Di fatto, il Covid non rappresenta tanto un’eccezione, quanto una regola interna al sistema. Ciò viene evidenziato da un numero sempre più elevato di contributi scientifici, che ci permettono di prendere atto della situazione attuale, senza dover essere necessariamente scienziati. Studi che ci invitano a non girarci dall’altra parte, a non urlare al complotto e contemporaneamente a non cadere nel catastrofismo.

Il rapporto Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi, redatto dal WWF Italia nel marzo 2020, attesta una profonda interconnessione tra il Covid-19, l’azione umana e la biodiversità. Quella che l’umanità sta affrontando è una zoonosi emergente, ovvero una malattia infettiva trasmessa dagli animali e prima sconosciuta. La diffusione del virus, al pari di quella delle altre cosiddette malattie emergenti (tra cui l’Ebola, l’AIDS e la SARS), non è da considerare come un disastroso evento naturale, ma la conseguenza del nostro impatto sugli ecosistemi naturali. Fin dalle prime battute, il documento riconosce l’Antropocene come periodo attuale della storia, in cui:
Il passaggio di patogeni (come i virus) da animali selvatici all’uomo è facilitato dalla progressiva distruzione e modificazione degli ecosistemi dovuta alla penetrazione dell’uomo nelle ultime aree incontaminate del pianeta e al commercio, spesso illegale e non controllato, di specie selvatiche che, di fatto, determina un contatto intimo tra animali e i loro patogeni.
In riferimento al rapporto dell’Intergovernmental Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), uno dei vari organi scientifici delle Nazioni Unite, si può constatare come le attività umane stiano causando la disintegrazione dei vari ecosistemi naturali a un tasso che ha le caratteristiche del cataclisma: circa i tre quarti dell’ambiente terrestre e i due terzi di quello marino sono stati modificati in modo significativo, e un milione di specie rischiano l’estinzione. Questi mutamenti senza precedenti spingono al contatto sempre più diretto e diffuso con animali selvatici portatori di batteri e virus patogeni, che, nel caso del Covid-19, dovrebbero essere i pipistrelli venduti nel grande mercato cinese di Wuhan. La diffusione di questa zoonosi è evidentemente favorita da un sistema globalizzato e in continuo movimento, quasi del tutto privo di regolamentazioni socio-sanitarie a livello mondiale. Allo stato attuale delle cose, le prospettive per il futuro non sembrano affatto rassicuranti.

Proprio in questi giorni, il già citato IPBES ha pubblicato il suo ultimo rapporto, redatto da ventidue esperti internazionali, a seguito del workshop sulla biodiversità e le pandemie, che si è tenuto a luglio. Il documento affronta la questione senza mezzi termini, affermando subito come le principali cause della pandemia siano quegli stessi mutamenti ambientali che generano la perdita della biodiversità e il cambiamento climatico, determinati perlopiù dalle attività umane:
Queste includono lo sfruttamento del suolo, l’espansione e l’intensificazione dell’agricoltura, il commercio e il consumo delle specie selvatiche. Questi vettori di cambiamento portano in più stretto contatto la fauna selvatica, il bestiame e le persone, permettendo ai microbi animali di migrare negli uomini e trasmettere infezioni, a volte epidemie, e più raramente vere e proprie pandemie, che si espandono attraverso centri urbani, viaggi globale e vie commerciali.
Lo studio analizza tali fenomeni e rileva la difficoltà dell’attuale sistema di fronteggiare questo tipo di emergenze, destinate a caratterizzare la nostra vita nel prossimo futuro. Per questo, viene messo l’accento sulla necessità politica di prevenire tali fenomeni, attraverso l’istituzione di un ente intergovernativo per la prevenzione delle pandemie, con lo scopo di limitare i loro disastrosi effetti per la salute e l’economia nel tempo. Un organismo del genere implicherebbe un monitoraggio costante della situazione e la prefigurazione di obiettivi condivisi dai rispettivi membri per l’implementazione dell’approccio One Health, che connette la salute umana a quella animale e ambientale. Questa proposta è destinata a dividere l’opinione pubblica, ma l’impressione è che la nascita di istituzioni di questo tipo sia necessaria, per non trovarsi continuamente a rincorrere le cause e le conseguenze di problematiche sempre più globali. È questa una delle lezioni che il Covid ci sta lasciando.