
Eletta lo scorso 18 giugno, la Professoressa Daniela Mapelli inizierà ad ottobre il mandato di rettrice dell’Università di Padova, dopo 800 anni di rettorato maschile. Nonostante la notizia abbia avuto risonanza a livello nazionale, il dibattito che ne è scaturito è risultato superficiale. La vittoria di Mapelli, infatti, non sembra aver stimolato particolarmente la discussione sul ruolo delle donne in università, ancora marginali e sottorappresentate, soprattutto ad alti livelli.
Il tema della parità di genere in ambiente universitario si è fatto rilevante negli ultimi anni, ne è prova la Direttiva n. 2/2019 del PA che richiede alle università la pubblicazione di un bilancio che renda i dati sulla composizione di personale studentesco e professionale accessibili e separati per genere. Ho provato a spiegare l’importanza della disgregazione dei dati qui.
Per capire cosa ci stiano dicendo questi dati, prendiamo come esempio il primo bilancio pubblicato dall’Università di Brescia nel dicembre 2020. Lo sviluppo delle carriere universitarie è rappresentato, in modo saliente, nel grafico che segue. I livelli di carriera universitaria sono disposti sull’ascissa in ordine di prestigio ed età.

Le categorie di professori associati e ordinari sembrano le più conservatrici a livello di separazione di genere. Se le percentuali di ricercatrici e ricercatori sono passate, rispettivamente, da 43,6% e 56,4% del 2012 a 48,5% e i 51,5% del 2020, mostrando una riduzione della disparità (da 12,8% a 3%), le categorie di professoresse e professori ordinari non hanno subito lo stesso fenomeno. Le percentuali infatti sono rimaste pressoché invariate (da 22,8% e 77,2% del 2012, a 24,6% e 75,4% del 2020).

Quello dell’università di Brescia non è però un caso isolato, ma anzi perfettamente in linea con il trend nazionale, che ci parla di una segregazione verticale che rende difficile, per le ricercatrici, scalare la gerarchia accademica.
Inoltre, la biforcazione dei dati è probabilmente dettata da una serie di fattori difficili da comprendere in toto, se non si procede ad un’analisi qualitativa piuttosto che quantitativa.
Che si tratti di merito?
Qualcuno potrebbe ingenuamente pensare che gli uomini siano professori migliori, più brillanti o più produttivi. Guardando a numero di pubblicazioni e citazioni, numero di coautori, stipendio medio annuo e anni di esperienza, la performance media dei ricercatori italiani risulta del 37% superiore a quella delle ricercatrici. Ma come riporta Nature, “questa differenza è principalmente dovuta al fatto che gli uomini sono sovra-rappresentati nel 10% di professori con la produttività più alta. […] Sono i professori ordinari – il gruppo in cui le donne sono meno presenti – ad avere in media prestazioni più elevate. Le differenze di performance tendono a svanire nel restante 90% dei ricercatori, e addirittura si ribaltano quando l’analisi prende in considerazione solo i professori ordinari”. Parliamo quindi di un serpente che si morde la coda. I professori uomini risultano più riusciti in quanto ricoprono più di frequente posizioni prestigiose.
Che si tratti di aspettative sociali?
L’avanzamento di carriera inizia a farsi complicato per le ricercatrici a seguito del dottorato, che spesso coincide, per le donne, con la nascita del primo figlio (di media intorno ai 30 anni). Il lavoro di cura non pagato e richiesto dalla maternità, infatti, rallenta lo sviluppo delle carriere delle ricercatrici. A Brescia, Il 65% dei ricercatori a tempo determinato o indeterminato ha un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, mentre il 23% ha età minore di 34 anni. Se si guarda alle ricercatrici invece, si parla, rispettivamente, di 87% e 0%. Anche il passaggio da ricercatrice a professoressa potrebbe essere rallentato da un diverso ruolo di cura: quello nei confronti di parenti e genitori anziani, ancora spesso relegato alla donna lavoratrice. È importante però capire come il ruolo di cura non sia qualcosa di connaturato e inscindibile dal femminile, ma anzi qualcosa di strettamente correlato alle politiche di welfare. In Italia, ad esempio, solo il 24% dei bambini di età idonea è iscritto in un asilo, in Norvegia è il 90%.
Che si tratti di squilibri di potere?
I primi livelli della carriera accademica richiedono forme di supervisione che possono creare rapporti di potere sbilanciati, terreno fertile per molestie psicologiche, fisiche e sessuali, in particolare in condizioni di precarietà lavorativa e incertezza nei confronti del futuro, tipiche tra giovani ricercatrici e ricercatori. Nonostante esistano alcuni casi mediatici e sondaggi informali riguardanti le molestie sul luogo di lavoro, di fatto mancano dati aggregati a livello nazionale. Il bilancio di genere dell’Università di Brescia riporta come nel 2019 siano state prese in carico dalla Consigliera di Fiducia dell’Università 14 casi di molestie, di cui 10 su donne.
È chiaro come nessuno di questi elementi – preso individualmente – sia in grado di fornire una spiegazione esaustiva del fenomeno di segregazione, comprensibile solo se si guarda alla loro interazione e all’impatto che essi hanno sul mondo del lavoro, del precariato e della ricerca.
Abbiamo mancato un’occasione di dibattito per vari motivi: dalla volontà di preservare lo status quo – usando l’elezione di Mapelli come prova del fatto che la parità di genere già sia stata conquistata o sia immediatamente raggiungibile nel prossimo futuro – alla retorica meritocratica che immagina le scelte e la carriera individuale come scevre da pressioni sociali e culturali. Ancora Il Corriere riporta in un’intervista del 24 giugno le parole della futura rettrice per la quale “è arrivato il momento per le donne di pretendere […] di proporsi in ogni ruolo di leadership”. Questo tipo di discorso – se non opportunamente affiancato ad un’analisi delle cause che ci spieghino cosa e perché le donne dovrebbero pretendere – deresponsabilizza la collettività, colpevolizzando l’individuo. Il che, distraendoci dai limiti sistematici del mondo accademico, sposta l’attenzione su una presunta mancanza di caparbietà femminile, di cui è facile essere accusate.