
Predisporre il curriculum vitae, operazione disgraziatamente nota a tutti, nel corso di una pandemia è stato un momento catartico. Stare davanti ad uno schermo a stilare le più disparate soft skills mentre il rapporto fra spazio-tempo e sanità mentale si disgregava aveva un retrogusto grottesco. E’ possibile che la macchina non si debba fermare nemmeno adesso?
Questi mesi di isolamento domestico potevano essere un’occasione per riprendere contatto con la realtà-presente che, nella routine, viene spesso rimpiazzata da un eccesso di fini. Con “eccesso di fini” qui si intende l’atteggiamento ininterrotto di proiettare la contingenza ben oltre la realtà-presente, trasferendola in un interminabile “finalismo per gradi”. E’ evidente come, in un certo senso, l’essere umano abbia utilizzato questo modello per svincolarsi dall’assurdità della condizione. Oggi, però, l’esigenza di iper-redditività ha esasperato tale meccanismo, ostacolando ancora di più la ricerca della propria componente intima. La realtà viene scandita da meta-traguardi predeterminati dall’Alto, il cui godimento o è fugace o, peggio, viene del tutto obliterato. E’ d’obbligo, quindi, soffermarsi su come questo finalismo per gradi si sia insinuato fra le mura domestiche persino nel corso di una pandemia globale e su come, ora più che mai, sembra essere impossibilitata una forma di pensiero che riesca a trovare spazio oltre al mero riscontro fattuale, preferibilmente, spendibile.

Un primo elemento problematico durante la quarantena è stato il mantra della produttività, dell’occupazione del tempo con qualsiasi attività, a prescindere che si trattasse di qualcosa che appartenesse realmente al patrimonio individuale del singolo. E quindi: tutti ad amalgamare l’impasto per la pizza e a seguire tutorial online per tonificarsi, tanti ad improvvisarsi bramini che invitavano a ritrovare sé stessi nella decantata “magia delle piccole cose”, qualcuno, appunto, a rimpinzare il curriculum vitae di inglesismi per adescare i famigerati recruiters. Avere micro-tappe può essere confortante ma, quando il raggiungimento della tappa finisce per essere la ragione ultima del percorso stesso, il fulcro della questione si elude: perché si sta procedendo in questa direzione?

All’inizio escogitare svariate attività sembrava essere un buon compromesso per trascendere il vuoto traumatico di ogni giornata. Malgrado ciò, piano piano, la sensazione costante è stata un assolvimento affannoso di attività auto-imposte. Non appena lo schema prestabilito veniva tradito, la voragine interiore, che si cercava di nascondere in tutti i modi, si manifestava con asprezza. E’ stato solo l’incontro obbligato con il vuoto routinario a rivelare la fragilità di una risposta collettiva fondata sull’agire, sull’essere operativi anche laddove la condizione spaziale e temporale era totalmente soppressa. Si trattava infatti di un agire decontestualizzato, che, da un lato, ha spostato l’attenzione al “post-pandemia” e, dall’altro, ha richiesto velatamente di essere positivi e, di conseguenza, efficienti. Non si vuole, in questa sede, né biasimare tale atteggiamento, pressoché universale, né giungere ad indebite auto-colpevolizzazioni. Più che altro, l’intento è continuare a far luce sul potere persuasivo che gli slogan, i mezzi pubblicitari e i social network hanno sul popolo. Banale ma essenziale.
Pericolosa la volontà di normalizzare a tutti i costi una situazione eccezionale, ribadita, per esempio, dall’invito continuo a “non fermarsi”. Espressione che deve esser messa in discussione, non tanto perché ha sottovalutato la virulenza del virus, errore umano tollerabile, ma piuttosto perché ha riaffermato la convinzione che sia la sola produttività fine a sé stessa a poter qualificare l’essere umano. Convivere con questo regime tassativo di output obbligati è estenuante nelle condizioni ordinarie di vita, figurarsi quando si è compressi a livello spaziale.
Ancora, l’intento rassicurante del “andrà tutto bene”, sebbene abbia dato tregua dall’incalzante infodemia[1], ha posto l’accento sulla fine della pandemia, mettendo da parte la difficile realtà-presente. Sovraccaricarsi di aspettative per la realtà-futuro implica un accumulo di ottimismo che non ammette battute d’arresto, che non rispetta la sofferenza come condizione attuale con cui convivere. La proiezione verso l’obiettivo “benessere post-pandemia” riproduce il finalismo per gradi che costella la mentalità compulsiva della società attuale. Stare male ed essere improduttivi distoglie dalla finalità prestabilita ma offre spazio riflessivo autosufficiente che contribuisce ad accettare di essere in pausa. Non confrontarsi con l’attuale iper-producendo sopprime l’essere creature sensibili, capaci di azioni libere e scollegate. Come non si avrà benessere nella paralisi avvilente o nella riluttanza a qualsiasi militanza costruttiva, allo stesso modo, non lo si avrà nemmeno nell’esasperazione del “fare per fare”. Al contrario, così, si annienta definitivamente la potenza creatrice (e salvifica) dell’azione.
Il vero traguardo (giusto per adeguarsi ai sacri target), dopo un evento simile, è prendere consapevolezza di come il “finalismo per gradi” si sia manifestato comunque e di come abbia incoraggiato a non stringersi nel proprio dolore. Negare la sofferenza e attribuirgli solo valore negativo è molto approssimativo perché scorda come la condizione di «mancanza» sia potenza generatrice e ponte verso il Nuovo.
«Forse ogni vera catastrofe è, nel nocciolo, sempre un dramma personale. Non si può criticare la vita [..] devi toglierti il cappello davanti a lei e alle tecniche di cui dispone per privare un uomo del suo significato e svuotarlo totalmente del suo orgoglio»
scriveva, con accuratezza, nel 1998 Philip Roth nel romanzo “Ho sposato un comunista”[2]. E’ stato anche un dramma personale e doveva essere rispettato nel suo rallentamento tempistico, senza pressioni funzionali a mantenere il solo loop sterile di un fare fine a sé stesso.