
Per chi cresce in provincia, non è figlio di genitori politicamente impegnati o per chi sente di non aver avuto una formazione adeguata, l’attivismo sui social può rappresentare una buona introduzione tanto al pensiero politico, quanto alle cause civili, sociali e ambientali. Spesso lǝ attivistǝ sui social, attraverso il racconto dettagliato e squisitamente privato di esperienze individuali, forniscono un linguaggio e una chiave di lettura ad esperienze che anche noi facciamo e che fatichiamo a comprendere. La matassa di percezioni sconnesse e nebulose sensazioni di ingiustizia che ci capita di sentire si sbroglia e diventa comprensibile. Si pensi a come il cat-calling si sia fatto sempre più riconoscibile attraverso il discorso mediatico. È una sensazione rassicurante quella che si prova quando un’altra persona – più competente, autorevole o preparata di noi – dà un nome a qualcosa di cui abbiamo fatto esperienza. L’attivismo online spesso ci spiega cosa stiamo provando, perché lo stiamo provando, e come potremmo reagirvi. Il meccanismo di rappresentazione è tanto semplice quanto cruciale per le istanze politico-sociali. Quando ci sentiamo rappresentatǝ, la voce dell’attivista risuona come fosse la nostra e rivela ciò che abbiamo bisogno di ripensare o abolire.
Ma a chi parla e chi rappresenta l’attivismo sui social? Riesce o vuole rappresentare tuttǝ? E se anche fosse, basterebbe la sola rappresentazione a renderci parte attiva del cambiamento?
In primo luogo, l’attivismo online spesso ignora una buona parte della società civile. Sui social finiamo in bolle epistemiche in cui interagiamo con persone che, di fatto, già la pensano come noi (vedi perché e come qui e qui). Spesso i profili che finiamo per seguire si citano l’un l’altro, si ostinano sulle stesse questioni che appaiono del tutto superflue a chi della bolla non fa parte, ma che diventano – per un altro bias di pensiero – fondamentali per noi. Per sentirci rappresentatǝ rinunciamo tanto a comprendere quanto anche solo a vedere chi è radicalmente diverso da noi. Tornando all’esempio del cat-calling, raramente si è parlato di come persone di diversa etnia o classe sociale (come mette in luce Rebecah Commey, qui) ne siano vittime in modo sproporzionato. La questione demografica e di classe è proprio ciò di cui l’attivismo sui social non rende conto. Anche quando cerca di impegnarsi rispetto a fette marginalizzate della popolazione, raramente entra in dialogo o trova i mezzi per mettere in campo azioni concrete a loro beneficio. Inoltre, la visibilità dei contenuti a cui veniamo esposti è dettata da strategie di marketing e pubblicità, come sottolinea – sempre qui – Serena Mazzini. I contenuti a cui siamo esposti – se non pubblicati da qualcuno che già seguiamo – sono quelli sponsorizzati e in linea con gli obiettivi delle piattaforme stesse (sempre secondo Mazzini, obiettivi che non corrispondono certo a uno stratificarsi della nostra coscienza politica o a una trasformazione sociale radicale). Così, l’attivismo finisce a parlare di sé stesso e per sé stesso, peccando di autoreferenzialità e mettendo da parte l’azione concreta.

Il problema dell’autoreferenzialità non dipende solo dall’egocentrismo imposto dalle piattaforme, ma anche dalla forma stessa del discorso, quasi esclusivamente monologica. Certo, si può interagire con l’attivista, commentare le sue storie, rispondere ai suoi sondaggi, ma di fatto, la visione che ci viene proposta raramente si modifica rispetto alla sua forma originale. Alcuni scienziati del linguaggio hanno dimostrato come le interazioni di forma dialogica, cioè quelle che richiedono la partecipazione attiva e simultanea di diversi parlanti, permettano ai parlanti stessi di allinearsi. In altre parole, due persone coinvolte in una conversazione tendono ad imitare reciprocamente i gesti dell’altro, la postura, il modo in cui vengono pronunciate le parole ma anche il modo in cui si vede e concepisce il mondo. I parlanti infatti mettono in discussione le rappresentazioni mentali di ciò che discutono, costruendo e convergendo su una prospettiva comune – il che, si noti, non corrisponde all’essere d’accordo su un determinato concetto. Discutere del patriarcato, per esempio, è fattibile solo nel momento in cui si ha una certa comprensione basilare del fenomeno che si sviluppa dinamicamente con lo svolgersi della conversazione, in base ai diversi contributi individuali. Allinearsi è invece difficile, se non impossibile, quando l’interazione è ridotta. Il pensiero alla base di un post qualsiasi sarà difficilmente plasmato dai rispettivi commenti perché lo scambio, in primo luogo, sarà gerarchico e fortemente influenzato dall’autore, e, in secondo luogo, mancherà dell’apporto costante e dialettico che permette di costruire, interattivamente, prospettive comuni. Il problema di concretezza, invece, deriva dalla mancanza di confronto con il reale e con il diverso. Partecipare attivamente alla cosa pubblica, attraverso collettivi, mobilitazioni e manifestazioni permette di essere visti e di vedere ma anche di scontrarsi concretamente con tutta quella fetta di realtà che i social ignorano (tanto le categorie marginalizzate quanto semplicemente chi è fuori target: dalla persona anziana, a quella che parla un’altra lingua, a quella sì presente sui social ma con altri intenti e in altre bolle).
Dialogo e mobilitazioni dipendono strettamente da un pensare collettivo che l’attivismo sui social non incentiva. Parlando del rinnovato ruolo dei sindacati in UK, Eve Livingston riporta le parole della sindacalista Jane McAlevey che fa chiarezza sui compiti dell’attivista: la difesa, la mobilitazione e l’organizzazione. Chi difende parla per qualcun altro, amplificandone la voce (cosa che l’attivista riesce a fare sui social, nel migliore dei casi), chi mobilita invece coinvolge chi già è appassionato alla causa in un’azione concreta (manifestazioni, petizioni, sit-in), mentre chi organizza recluta attivamente chi vive oltre la bolla e può essere soggetto ed oggetto del cambiamento. Organizzarsi in quest’ultimo senso richiede qualcosa che i social – per come sono pensati ad oggi – non riescono a fare: stabilire un common ground, ovvero una prospettiva comune da cui partire, comprensibile e rilevante per tutte le voci coinvolte.