
Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza di genere. La ricorrenza è stata istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per sensibilizzare la popolazione su un’ingiustizia che colpisce 1 donna su 3 nel mondo (World Bank) ma la cui portata è ancora sottovalutata e malcompresa. Il giorno seguente associazioni e gruppi femministi convergeranno a Roma, nel corteo nazionale organizzato da Non Una Di Meno (NUDM) in congiunzione con Di.Re, Donne in Rete contro la violenza.
Nel 2020 in Italia ci sono stati 116 femminicidi, il 58% dei quali compiuti da partner o ex-partner¹. Si sale al 70% di donne uccise “in casa” se si considerano anche gli assassinii commessi da parenti. I femminicidi vengono spesso narrati con la semantica del “raptus”, dell’eccesso di passionalità, che tratta l’evento come scisso dal contesto socio-culturale, come fosse un caso isolato, responsabilità di un individuo marcio. Invece, il femminicidio è un fenomeno da guardare in un’ottica di sistema, come problema strutturale che emerge da un contesto culturale sessista che oggettifica la donna e che diffonde modelli machisti di mascolinità aggressiva e relazioni incentrate sul possesso.
In questo senso, i femminicidi sono solo la punta dell’iceberg di una piramide di violenza che ha una base subacquea molto più estesa di quanto si riesca a cogliere concentrandosi solo sulle violenze più gravi. La violenza non è solo nell’atto estremo del pugno o della violenza sessuale, ma si origina ben prima, causando alle donne una sofferenza meno acuta ma quotidiana.
Se le giornate internazionali devono servire a qualcosa di più che a far balenare il pensiero a un problema per il tempo di lettura di un post, proviamo a capire meglio quali altre sfaccettature includa la violenza di genere, andando oltre le narrazioni prevalenti nei media mainstream che risultano spesso estremamente superficiali.
Frasi trite e ritrite che girano in questi giorni, come “un vero uomo non picchia”, “una donna non si tocca neanche con un fiore”, “pensa se fosse tua sorella/tua figlia/tua madre” sono del tutto fuorvianti, nel senso che si rivolgono agli uomini appellandosi al loro presunto ruolo di protettori, relegando invece le donne a una posizione inerte, passiva. Frasi del genere invisibilizzano l’esperienza di chi subisce violenza, mancando di mettere a fuoco quello che sarebbe invece il punto di vista da rappresentare, ossia: il vissuto delle donne intrappolate in relazioni abusive e molestate quotidianamente.
Lasciateci dire: non ci serve essere difese, ci serve essere ascoltate.

Foto Ap e LaPresse.
La violenza domestica in Italia, come nel resto del mondo, è peggiorata a causa della pandemia per un insieme di fattori interrelati. Le restrizioni alla mobilità hanno costretto molte donne in casa con i loro maltrattatori, isolandole, rendendo ancora più difficile chiedere aiuto: delle oltre 15 mila richieste di aiuto giunte ai Centri Antiviolenza (CAV) nel 2020, le segnalazioni in cui la vittima si sentiva in pericolo di vita sono state molto più frequenti durante i primi mesi del lockdown (ISTAT). Inoltre, la precarietà economica femminile acuisce il rischio di subire violenza: le donne hanno perso il lavoro più spesso degli uomini a causa del Covid ed hanno poi avuto maggiori difficoltà a rientrare nel mercato occupazionale. Queste difficoltà si sommano alle preesistenti disuguaglianze economiche tra donne e uomini, aggravando la dipendenza economica dal partner che costituisce una potenziale arma in mano a un maltrattatore. La donna che si trova a non potersi mantenere da sola, infatti, è impossibilitata a lasciare il partner seppur violento. (Per questo, il Piano Antiviolenza di NUDM prevede, tra le altre cose, un reddito di autodeterminazione per sostenere le donne nel percorso di uscita dalla violenza.)
Un partner violento prima di arrivare ad alzare le mani sulla vittima spesso ne ha già abusato secondo altre modalità, più difficili da riconoscere perché meno “visibili”. L’83% delle donne che si sono rivolte ai CAV nel 2020 hanno segnalato di aver subito più di un tipo di violenza: a quasi 4 su 10 è stato impedito l’accesso alle risorse economiche (cosiddetta “violenza economica”), mentre 9 donne su 10 hanno riportato di aver subito violenza psicologica, ossia controllo, intimidazione e manipolazione volti a minare l’autostima e la capacità di reagire della vittima (ISTAT).
L’isolamento sociale, la violenza economica, i maltrattamenti emotivi, nonché le responsabilità di cura verso figli e parenti anziani, stringono in una morsa da cui è difficile uscire. Un aspetto delle relazioni abusanti difficile da comprendere per chi guarda da fuori è perché le vittime non se ne vadano subito, perché sopportino così a lungo. Per capire la dinamica della violenza domestica serve immedesimarsi in una relazione che non è più tra pari, ma è un rapporto potere in cui l’abusante ha il controllo, il potere e l’autorità, e la vittima si trova in una condizione di isolamento, paura ed estrema fragilità.
Don’t ever leave me (or I’ll hurt you) di Ogilvy per Diotima (Grecia).
Il corto rappresenta in modo realistico il crescendo della violenza domestica.
La donna si trova ad essere incastrata in ricatti emotivi e dinamiche psicologiche che la portano a colpevolizzarsi, a dubitare della gravità della situazione o a giustificare il partner abusivo. Una manipolazione fortemente impattante è quella del gaslight, termine che deriva da un film del 1944 in cui il marito convince la moglie di essere pazza modificando l’intensità delle luci in casa e negando di averlo fatto. Il gaslight rappresenta una forma di violenza in quanto porta le vittime a dubitare delle proprie percezioni e a minimizzare ciò che vivono, a sentirsi sbagliate, svilite e stupide. Intrappola in una gabbia invisibile, impossibile da contrastare, perché il manipolatore insiste a negare l’esperienza della vittima, sostenendo che ricorda male o si inventa le cose, convincendola così che dei gesti violenti siano in realtà segni d’amore (non lo sono mai).
Se la vittima non lascia l’abusante, quindi, non è perché non è stata abusata abbastanza ma perché è stata abusata così tanto che anche i suoi meccanismi di difesa sono stati distrutti. Unitamente alle dinamiche individuali, c’è un problema di percezione diffuso: se il 45% delle donne vittime di violenza fisica o sessuale trova che sia stato “qualcosa di sbagliato” ma non che si sia trattato di un reato, ben il 20% ritiene che sia semplicemente “qualcosa che è accaduto” (ISTAT, dati aggiornati al 2014). Questo riflette un gaslight sistemico dell’esperienza femminile, ossia il fatto che le donne italiane hanno interiorizzato una narrazione condivisa che depotenzia la gravità delle molestie, che porta chi subisce a pensare che l’essere costretta a contatti fisici (baci, abbracci) o atti sessuali indesiderati è semplicemente qualcosa che accade. Questo non può e non deve essere considerato normale.

La normalizzazione delle molestie passa per il sessismo quotidiano veicolato da stereotipi e linguaggio non inclusivo, da “minuzie” come frecciatine e commenti ironici che silenziosamente conservano e riproducono una mentalità sessista nel senso comune italiano. Specialmente nel sud d’Europa, il sessismo pervade le nostre preconcezioni di come funziona il mondo, il lavoro, l’amore.
Il maschile permea a tal punto ogni concezione sociale, ogni paradigma, che diventa invisibile, automatico. È lo stampo che dà forma a tutto ciò che sia mai stato elaborato dalla nostra cultura. Pertanto, è difficilissimo notare quanto la società sia connotata dal maschile (che è neutro, universale e normale), e comprendere quindi quanto spazio in più bisogna dare alla voce delle donne.
Tenetevi forte, perché quello che sto per dire potrebbe suonare ardito, eppure è vero: la normalità di una società patriarcale è violenza quotidiana.
L’Istituto Europeo per L’uguaglianza di Genere (EIGE) e la Convenzione di Istanbul – il golden standard internazionale per il contrasto alla violenza di genere -, riconoscono il ruolo giocato da stereotipi, atteggiamenti e modelli culturali sessisti nel perpetuare l’idea dell’inferiorità della donna e quindi nel normalizzare e riprodurre la violenza di genere. Secondo EIGE, se procediamo a questa velocità ci vorranno 60 anni per raggiungere la piena parità di genere in Europa.
Nel momento in cui non c’è eguaglianza, la subordinazione delle donne nella vita economica, sociale e politica rappresenta una forma di violenza, detta strutturale o istituzionale, che è alla base delle altre forme di violenza esplicita dal momento che ne consente la normalizzazione e riproduzione, mancando di intervenire attivamente per contrastarle.

La violenza istituzionale si estrinseca ad esempio negli ostacoli e resistenze che le vittime incontrano quando cercano aiuto per uscire dalla violenza. Il 48% delle donne che ha denunciato violenza non è soddisfatta del trattamento ricevuto da parte delle istituzioni (ISTAT), e molteplici testimonianze ci raccontano perché: le vittime vengono spesso trattate con incredulità, “accolte” con frasi come “Stai esagerando, non è successo niente di grave”, o addirittura colpevolizzate per la violenza che altri hanno commesso su di loro (i classici “com’eri vestita?” o “te la sei cercata”). Analogamente, molte delle molestie più “leggere” subite in pubblico (come il catcalling) o sul luogo di lavoro non vengono nemmeno riconosciute come tali dalla maggior parte della popolazione italiana, sia donne che uomini, perché siamo talmente abituate e abituati a queste invasioni del nostro spazio personale che fatichiamo a riconoscerle come il prodotto – evitabile – di una mentalità per cui gli uomini possono tutto sul corpo delle donne.
Le discussioni pubbliche su casi di revenge porn esemplificano bene quanto il dibattito pubblico italiano sia intriso di sessismo e di svalutazione del punto di vista femminile. Se qualcuno diffonde, senza il nostro consenso, delle nostre foto nude, rischiamo di perdere il lavoro, di essere ostracizzate, isolate, messe alla pubblica gogna. Ma quando si è perso di vista che non c’è nulla di male nel scattarsi foto nude (non venga il quinto paese al mondo per consumo di pornografia a fare prediche sul pudore e le virtù verginali) e invece tutto di crudele nel violare non solo l’intimità ma la fiducia della persona che te le ha inviate in privato? Come è possibile che la meschinità di un tale vile atto non sia ciò che più ci colpisce, ma che ci venga prima da dire “che t***a”?

Foto Ap e LaPresse.
Per tale ragione, serve soprattutto cambiare la cultura. Questo passa in primis dalla messa in campo di tutti gli strumenti a disposizione di stato e istituzioni per agire sulle strutture sociali attraverso nuove leggi e politiche. Il già citato Piano Antiviolenza di NUDM, frutto di una stesura collettiva dal basso, dovrebbe rappresentare un punto di riferimento per le politiche di genere in quanto prevede non solo il potenziamento dei CAV, più finanziamenti per i percorsi di fuoriuscita dalla violenza e l’istituzione di un realistico reddito di autodeterminazione, ma anche un approccio femminista, organico ed efficace per il contrasto alle cause profonde della violenza. È infatti urgente introdurre percorsi di educazione affettiva ed emotiva per plasmare generazioni libere dagli stereotipi sessisti e consentire alle donne di sviluppare quella stessa innata fiducia in se stesse di cui oggi dispongono solo le persone socializzate maschi (fiducia manifestata ad esempio dalla facilità a prendere parola in pubblico ed essere assertivi).
Il cambiamento culturale è un lento cammino in salita, che potrà essere compiuto solo muovendoci insieme come società, accogliendo le richieste di chi soffre e non vuole più subire. C’è però un primo passo che è qui, alla portata di tutte e tutti, che possiamo compiere immediatamente: iniziare a credere a chi denuncia e testimonia la violenza di genere, ascoltare “il grido altissimo e feroce di tutte quelle donne che più non hanno voce.”
[1] N.d.A. Il termine violenza di genere include di principio anche la violenza compiuta sugli uomini. Tuttavia, questo articolo si focalizza sulla violenza subita dalle donne, per lo più nel contesto domestico. La scelta di angolatura è consapevole e giustificata dalle statistiche: su 170 uomini uccisi nel 2020, solo 5 di essi sono stati uccisi dal* partner, e nessuno dall’ex. Inoltre, l’intento di questo testo è di raccontare il vissuto femminile e chiede quindi al lettore di esercitare empatia, di immergersi nel punto di vista e nell’esperienza delle donne. Questo non significa negare che il patriarcato soggioghi anche gli uomini.
Immagine di copertina: Illustrazione di Orsola Sartori, @orsa.art