
«Se faranno ciò di cui sono capaci con le forze ammassate al confine, finirà per essere un disastro per la Russia» sono queste le parole del presidente USA Joe Biden al termine della conferenza stampa tenutasi il 20 gennaio che hanno scatenato una serie di reazioni riguardo al futuro dell’Ucraina e alla possibilità di una guerra con la Russia. Ma, ha aggiunto, «potrebbe esserci una piccola incursione e noi ci troveremmo a combattere tra ciò che va fatto e ciò che non va fatto» . Da una parte i russi hanno accusato Biden di destabilizzare l’area, fornendo un implicito appoggio ad eventuali colpi di mano ucraini contro le regioni filorusse; dall’altra gli ucraini hanno visto la seconda affermazione come un lasciapassare ai russi in caso di un’invasione con obiettivi limitati e una conferma della spaccatura nel campo occidentale tra fautori della linea dura e sostenitori della linea soft contro Mosca. In ballo ci sono interessi geopolitici di varia natura: militari, energetici e relazionali tra i vari attori in gioco, che infatti non hanno intenzione di concedere neanche un metro agli avversari, tanto che lo spettro di un nuovo conflitto non è mai stato così reale come in questi giorni. Ma come si è arrivati a questa situazione?
Lo spostamento dei soldati russi e il discorso di Biden sono solo le ultime mosse della complessa partita a scacchi che si sta giocando sul confine orientale dell’ex “granaio” dell’Unione Sovietica. L’Ucraina vive una situazione di pesante instabilità istituzionale e di guerra civile non dichiarata che de facto infiamma la parte orientale del paese dalla primavera del 2014, pochi mesi dopo l’annessione della Crimea alla Russia, quando alcune manifestazioni separatiste e pro-russe hanno portato alle dichiarazioni unilaterali di indipendenza di due regioni del Donbass: Donetsk e Lugansk. Dopo anni di combattimenti e tensioni la situazione è al momento cristallizzata in un conflitto a bassa intensità tra le forze ucraine e quelle filorusse che controllano ancora la parte più orientale della regione. Il coinvolgimento della Russia, inizialmente smentito, è poi diventato palese e giustificato dalla necessità di proteggere le popolazioni russofone dalla repressione del governo di Kiev, il quale da parte sua ha accusato la Russia di alimentare le rivolte e di aggredire l’integrità dello Stato ucraino.

La mossa che ha fatto scattare l’escalation è stata lo spostamento di quasi 100.000 soldati russi al confine ucraino e l’intensificarsi, secondo i servizi di sicurezza ucraini, della vendita di armi ed equipaggiamento alle milizie filorusse. L’ipotesi di vari analisti, suffragata poi anche dalle richieste avanzate dal ministro degli esteri russo Sergei Lavrov al vertice bilaterale di Ginevra con il rappresentante USA Antony Blinken, è che la mossa dei russi miri ad ottenere un rafforzamento della propria posizione sul confine orientale europeo, ridimensionando la presenza delle truppe NATO in paesi che una volta erano parte del Patto di Varsavia e dunque sotto la direzione militare russa, in particolare Romania e Bulgaria. Alla luce delle ultime dichiarazioni dunque, sembra che l’opzione di un conflitto aperto non sia considerata realistica neppure dai russi, i quali, nonostante posseggano la capacità di conquistare militarmente l’area più orientale dell’Ucraina avrebbero poi enormi problemi a mantenerla sotto il proprio controllo. Questo perché da un lato la popolazione di queste regioni non è interamente filorussa, dall’altro perché l’esercito di Kiev dal 2014 ha fortemente migliorato le proprie capacità belliche.
Alcuni fattori tuttavia fanno sì che la tensione resti alta e che la guerra rimanga una minaccia reale. Innanzitutto il governo di Kiev non è disposto ad accettare ulteriori mosse minacciose da parte del Cremlino e, per quanto consapevole della non opportunità di un attacco in prima persona alle forze di Mosca, è pronto a rispondere ad una mossa eccessivamente ambiziosa dell’esercito russo. Questa posizione è de facto condivisa dagli strateghi statunitensi i quali, per ragioni di prestigio interno ed internazionale, non hanno intenzione di accettare passivamente il fatto compiuto come successo in Crimea. In secondo luogo, il fronte occidentale è tutt’altro che unito al suo interno. Tra i leader europei si scontrano infatti da un lato i fautori della linea dura contro Mosca, in particolare i governi degli Stati più orientali della NATO, su tutti la Polonia e gli stati del Baltico. Dall’altro lato Germania e Francia si dimostrano più caute, misurando le dichiarazioni ed evitando il discorso riguardante le sanzioni economiche, consapevoli che Gazprom e dunque la Russia rappresenta ancora il principale fornitore di gas dell’UE.

Credits: Reuters
Finora il grande assente nei negoziati è proprio l’Unione Europea. Il suo Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, ha più volte espresso il proprio disappunto per la decisione delle due super potenze di mantenere la diplomazia in forma esclusivamente bilaterale. Del resto, sul tavolo c’è il futuro prossimo della sicurezza europea, sia in termini militari che economici e politici ed è particolarmente preoccupante che i suoi rappresentanti siano esclusi dalle trattative. Gli europei sono del resto quelli che al momento più di tutti cercano di gettare acqua sul fuoco, evitando strappi, come hanno invece fatto gli USA pochi giorni fa annunciando il ritiro del personale diplomatico non essenziale, e spingendo decisamente per il prosieguo dei negoziati e per la de-escalation.
È d’altronde difficile immaginare una conclusione positiva delle trattative che non comprenda l’Unione Europea, attore decisivo dell’area per vicinanza, interessi e capacità economiche e strategiche. Stati Uniti e Russia per ora si accontentano di provocarsi verbalmente o con dimostrazioni di forza che non sconfinano nell’aggressione aperta, ma il filo dei negoziati sembra sempre sul punto di spezzarsi. Tuttavia gli interessi in gioco sono molti, diverse pedine sono ormai state mosse e molti attori sembrano aspettare solo un casus belli per lanciarsi nel conflitto. In tutto questo, ancora una volta, nella narrazione degli eventi e sui tavoli delle trattative ci sono solo i grandi interessi economici e geopolitici. Non una parola per i civili che si troverebbero ancor più nella morsa delle operazioni militari, nonostante secondo l’ISPI dal 2014 in Ucraina orientale vi siano stati già 14mila morti e quasi due milioni di profughi.
Immagine di copertina: Immagine di Orsola Sartori