
Teamwork, public speaking, open space, leadership carismatica: sono termini questi che risuonano costantemente nel mondo dell’istruzione e del lavoro e che descrivono situazioni, ambienti, ruoli in cui ognuno di noi – spesso non per scelta sua – si è trovato almeno una volta. Oggi si dà per certo che il lavoro di gruppo in un ambiente condiviso, la presentazione in pubblico delle proprie attività e la guida di manager carismatici siano gli ingredienti perfetti per promuovere la creatività, il benessere e la produttività degli individui. Eppure, non per tutti è così. O almeno, non per chi è introverso.
In “Quiet – Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare” e in un illuminante TED Talk, Susan Cain osserva come nel nostro mondo “a misura d’estroverso”, molti introversi sentano la necessità di conformarsi ad uno standard di personalità che non appartiene a loro e tendano ad adattarsi a situazioni che a lungo andare rischiano di diventare opprimenti. Secondo la scrittrice americana, gli introversi così mascherati da pseudo-estroversi rischierebbero di cadere in uno stato di autonegazione involontaria della loro personalità e di percezione di costante inadeguatezza.
Perché parlare delle intuizioni di Susan Cain? Perché scrivere a sostegno della “rivoluzione degli introversi” oggi?
Perché nella definizione delle sue dinamiche e dei suoi spazi, la società occidentale sembra essersi dimenticata degli introversi, forse essa stessa vittima dell’errore percettivo che ci porta a pensare che gli estroversi siano di più degli introversi.
Perché per quanto tendano ad agire nell’ombra, gli individui con tratti di personalità prevalentemente introversi sono in realtà tanti quanti quelli prevalentemente estroversi.
Perché la possibilità di fare scelte congruenti con il nostro temperamento è fortemente legata al nostro benessere e al contributo che riusciamo ad apportare all’ambiente in cui viviamo.
Chi è estroverso ha di certo tristemente compreso l’importanza di questa libertà di scelta nel tempo di isolamento e restrizioni imposto dalla pandemia. Nella frenata d’emergenza a cui siamo stati costretti, tanti introversi hanno saputo invece essere silenziosamente produttivi nel lavoro tra le mura di casa, facendo riscoprire a tante realtà lavorative il potenziale della loro riflessività e della loro mente, vivace e attiva anche senza essere costantemente stuzzicata da persone e ambienti rumorosi.
Facciamo un passo indietro per comprendere cosa significa essere introverso o estroverso.
Abbiamo tutti un’idea di cosa vogliano dire questi termini tanto inflazionati e che probabilmente, senza troppo pensarci, abbiamo utilizzato durante un colloquio di lavoro in risposta all’odiatissima richiesta dei recruiters di descrivere noi stessi con pochi aggettivi. In genere, ci definiamo estroversi se siamo persone socievoli, con spiccate doti comunicative, dominanti all’interno del gruppo, intraprendenti e a tratti disinibite. Ci diciamo invece introversi se tendiamo ad essere tranquilli, riservati, capaci di introspezione, amanti dei libri e/o del computer più che delle persone e avversi al rischio. Sono questi schemi di comportamento, pensiero ed emozioni evocati in modo immediato ed intuitivo dall’etimologia delle parole introverso/estroverso (dal latino intro/estro ossia “dentro/fuori” e vertĕre ossia “volgere“).
Ci serve però ora una definizione chiara e condivisa. Secondo le più recenti teorie della personalità, estroversione ed introversione sarebbero poli opposti a valenza neutra di un unico fattore continuo che descrive il modo in cui la persona si rapporta con il mondo esterno.
Una dovuta specifica: non esistono estroversi o introversi “puri” (lo diceva già Jung). Recentemente è persino entrata in uso la dicitura ambiverso per descrivere chi si sente proprio nel mezzo del continuum tra estroversione e introversione.
Ma cosa sta all’origine di questo tratto tanto utilizzato nella definizione della personalità?
Psicologi e neuroscienziati non hanno ancora una risposta certa a questa domanda, ma la maggior parte degli studi sembra confermare il modello biologico proposto da Hans J. Eysenck (che cercherò di illustrarvi con qualche necessaria premessa). Il lungimirante psicologo tedesco, già nel 1947 si rifaceva al concetto di arousal, ovvero allo “stato di generale attivazione e reattività del sistema nervoso” in risposta a stimoli sia interni (fisici e mentali) che esterni (ambientali e sociali). Tra il livello di attivazione del sistema nervoso e la prestazione dell’individuo vi sarebbe una relazione funzionale a “U rovesciata”: mentre ad un livello intermedio di arousal si ottengono prestazioni ottimali, un arousal ridotto (sonno o rilassamento profondo) o eccessivo (come negli attacchi di panico) sarebbe incompatibile con un buon funzionamento cognitivo.

Secondo Eysenck, ogni individuo sarebbe caratterizzato da un livello di attivazione “basale” (dipendente in ugual misura da aspetti genetici e dall’esperienza) e tenderebbe spontaneamente a porsi in situazioni che gli consentano di raggiungere il livello ottimale di arousal.
Proprio qui risiede la chiave della distinzione tra estroversi ed introversi.
Secondo il modello, gli estroversi avrebbero un basso livello di attivazione basale, e ricercherebbero pertanto emozioni forti e ambienti ricchi di stimoli in grado di far loro raggiungere il livello ottimale di arousal e di massimizzare così le loro prestazioni. Al contrario, gli introversi partirebbero già da un elevato livello basale di arousal per cui tenderebbero ad evitare situazioni sociali e ambienti caotici/rumorosi che rischierebbero di portarli ad un eccessivo livello di attivazione del sistema nervoso (e quindi a marcati stati di ansia e di distress).

Per di più, secondo recenti sviluppi del modello, una stessa stimolazione (sensoriale, sociale, emotigena) genererebbe un maggiore incremento di arousal negli introversi rispetto agli estroversi a causa di una spiccata reattività del sistema dopaminergico dei primi.
Diventa ora più facile capire perché abbiamo prima definito la società occidentale contemporanea “a misura di estroverso”:
viviamo in un mondo “rumoroso”, siamo bombardati di immagini, parole e suoni, i media prediligono stili di comunicazione forti, immediati e ad effetto. In un mondo che non sa smettere di parlare, i privilegiati sono gli estroversi mentre gli introversi faticano a trovare ruoli e ambienti che non siano per loro ansiogeni e frastornanti.Dall’avvento della rivoluzione industriale l’ideale prevalente è quello dell’uomo d’azione, dell’intraprendenza, del carisma, del magnetismo.
La cultura dell’introspezione e la ricerca di stabilità e silenzio sono difficilmente comprese e gli introversi si trovano ad essere relegati nel ruolo di cittadini di seconda classe, il cui talento fatica a trovare un modo per esprimersi.Eppure, qualche introverso ce l’ha fatta. Bill Gates, Elon Musk, ma anche Gandhi, Rosa Parks sono solo alcuni dei grandi leader introversi che hanno cambiato il mondo, riuscendo a stare sotto i riflettori senza tradire la loro natura. Come? Ritagliandosi sempre una “zona di stimolo” appropriata alla loro disposizione naturale e concedendosi di farvi ritorno prima e dopo inevitabili esperienze in contesti frastornanti.
Secondo i sostenitori della “rivoluzione degli introversi”, sarebbe quindi fondamentale avere sempre più cura nel creare ambienti equilibrati che permettano ad ognuno di scegliere la zona di stimolo di cui ha bisogno. Un esempio: lasciare che, mentre l’estroverso si “butta” a capofitto in più attività di gruppo, l’introverso si prenda del tempo per lavorare da solo prima di confrontarsi con i colleghi.
Come sostiene Susan Cain, “Il segreto è mettersi nella giusta luce. Per qualcuno sarà quella dei riflettori di Broadway, per altri quella di una lampada da tavolo.”
Immagine di copertina: Illustrazione di Anna Maria Stefini