
Bruno Lauzi ha riccioli argento e baffi scuri. Un bisonte con lo sguardo severo. Difficile inchiodarlo in un’immagine sola. Per chi non sapesse proprio nulla di lui è quello che ha scritto “Almeno tu nell’universo”. La canzone con cui Mia Martini non vinse Sanremo, perché ostracizzata da pubblico e critica.
Lauzi nasce in Eritrea da una donna di origini ebraiche. Il suo vicino di banco è Tenco; esordisce come autore di un brano che interpreterà subito Giorgio Gaber; il suo avvocato è Paolo Conte; firma un autografo a Gabriel Garcia Marquez che ama i suoi brani – specialmente “Il Poeta” -. Genova è la sua città e in quegli anni è la mecca del cantautorato italiano. Fabrizio De André, Sergio Endrigo, Gino Paoli e, appunto, Luigi Tenco. La chiameranno più tardi “La Scuola Genovese”.
Si inciampa in Bruno Lauzi di rado e uno dei primi brani che si scova è “Ritornerai”. Il pezzo è stato inciso sul lato A di un 45 giri del 1963 che non conobbe molto successo e oggi è molto raro trovarlo in copia fisica. La copertina ha una grossa foglia ingiallita al centro e sul lato B c’è un altro brano, “Fa come ti pare”. Su Youtube si può trovare facilmente la copertina e l’audio della prima incisione dei due singoli, ma è inevitabile non essere attratti da un altro filmato. Forse è la prima apparizione televisiva del cantautore: oltre le schiene dei quattro conduttori schierati di fronte a uno schermo in bianco e nero, c’è un giovanotto senza barba che intona piano un bolero, “Ritornerai”. Bruno Lauzi vaga distratto seguito a debita distanza dall’occhio della cinepresa in una stanza arredata malissimo e inondata di una luce falsa. L’artificio televisivo che non prova nemmeno per un secondo a farsi casa, calore, famiglia: uno studio freddo e distante in ogni lampada accesa. Sembra Renato Pozzetto: un damerino un po’ in carne, tutto pettinato bene. Simpatico. Passeggia e il suo sguardo, palmo a palmo, percorre tutto lo studio. Non si sa bene dove debba andare, ma a un certo punto si volta e canta “E riderai”.
“Riderai / Quel giorno riderai / Ma non potrai/Lasciarmi più / Ti senti sola / Con la tua libertà / Ed è per questo / Che tu / Ritornerai”. Poi ancora: “E quando tu / Sarai con me / Ritroverai / Tutte le cose che / Tu non volevi / Vedere intorno a te”.
Si deve ascoltarla diverse volte prima di capire che Lauzi fa qualcosa di più che dedicare una canzone a una donna perduta, a un amore stanco. Non è una canzone che implora il ritorno delle passeggiate domenicali, di baci rubati di nascosto tra i vicoli di Genova o di lunghe lettere d’amore. “Ritornerai” l’ha scritta per quel ragazzone che vede riflesso sul pavimento in pvc dello studio RAI mentre passeggia: è una canzone scritta a sé stesso. A un sé stesso più giovane.
Quel giovane Bruno, antagonista e critico, come l’epoca imponeva, che strilla al mondo che sarà un adulto diverso da quelli che conosce, quelli che hanno sfregiato il Novecento di violenza e ingiustizie, ignoranza e menzogne. Bruno amico di artisti impegnati e capace di dire come la pensa sempre a voce alta, senza timore e senza arroganza. Bruno Lauzi si prende la briga, senza nessuna convenienza, di criticare quando è opportuno quel mondo di cantautori pieni di belle parole e mortali come tutti noi. Poi il giovane Bruno cresce, diventa adulto e l’anarchia, la libertà e l’indipendenza dalle norme e dai dettami culturali e sociali franano, rovinando nella poesia di questa canzone. Tutto finito: “E quando tu / Sarai con me / Ritroverai / Tutte le cose che / Tu non volevi/ Vedere intorno a te”.

La vera magia di questa canzone, il vero gesto poetico è l’assenza di rabbia: non c’è rancore nelle parole di quell’uomo. Non traspare mai una forma di disprezzo per la forza di omologazione che ha costretto un libertino a contenere i suoi sogni rivoluzionari. Conosce la differenza tra poesia e retorica. E non c’è nemmeno pietà, o compassione. Non rimbocca le coperte al suo sogno di sovvertire il mondo. Fa di meglio. Guarda negli occhi il giovane Bruno deluso che se ne sta andando pieno di rabbia, lo vede mentre sta per girare le spalle al mondo e gli dice che un giorno tornerà. E quando succederà “Riderai/Quel giorno riderai”. Quel giovane, il giorno in cui tornerà, lo farà ridendo perché avrà capito che la libertà non è una donna, non è un padre, non è adulta o bambina. Libertà è scrivere poesie sul terrazzo.
Libertà è dedicare una lettera a Mr.Parkinson, poesia che Bruno Lauzi scrive davvero alla malattia che lo condanna durante la vecchiaia. Libertà è fare musica, poesia e arte senza che diventino un vizio snob da chiacchiericcio in un foyer, ma celebrazione laica della vita che si consuma.
Proseguo e scopro che la voce di “Amore caro, amore bello” è la sua.
Il complesso articolarsi della musica italiana ha dato una dimora a tutti i suoi protagonisti. Eppure, Lauzi non ce lo vedo a dividere la camera con De André. Ama il casino, la gente, Milano e Jannacci, tanto che frequenterà spesso i cabaret in voga quegli anni nei bar milanesi. Quando parla al suo pubblico è sicuro, deciso e sereno. Non guarda leopardianamente il mondo dall’ermo colle. Lui vive nel mondo, fa un passo di lato e butta giù una poesia che illumina la stanza.
Qualcosa da portarsi a casa, oltre le sue canzoni, c’è. Nella rosa dei migliori cantautori serviva uno così, uno con una faccia come quella. Il nonno che potrebbe raccontare una storia diversa ogni sera, sempre pronto ad allungare una Rossana appiccicosa. Un nonno che sa ridere ed incazzarsi nello stesso momento con una libreria fatta di opuscoli sulla cura dell’orto e ricette tipiche genovesi. Un nonno con una voce che taglia l’aria e una mano malata che suona una nacchera invisibile fino a che non impugna una chitarra e si mette a cantare guardandoti.
Immagine di copertina: Illustrazione di Marco Sabbia.